miércoles, 21 de septiembre de 2011

STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI-IL PROGRAMMA COMUNISTA-bordiga-1955-0500

STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI (I)

[Premessa]

Content:
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (I)
Premessa
1 - Riferimento a trattazioni precedenti
2 - Piano del presente rapporto
3 - Ulteriore trattazione sulla «tattica»
4 - Risultati acquisiti
5 - La formula di Lenin
6 - Confronto con l'evento
7 - Storia di mezzo secolo
8 - Distruzione della guerra
9 - Liquidazione degli alleati
10 - Demolizione dello Stato
Notes
Source

Premessa
1 - Riferimento a trattazioni precedenti

Il tema attuale si può considerare diretta continuazione di quello che venne trattato nella riunione generale del partito tenuta a Bologna nei giorni 31 ottobre e 1 novembre 1954, e che è stato ampiamente sviluppato nella serie apparsa in ben undici numeri del quindicinale «Il programma comunista»: essi vanno dal n. 21 del 1954 al n. 8 del 1955.
Il titolo «Russia e rivoluzione nella teoria marxista» corrispondeva all'obiettivo di dare una sistematica esposizione di quanto il movimento comunista marxista ha sostenuto in ordine allo sviluppo storico della società russa e dei suoi rapporti internazionali.
Fedeli al metodo di presentare il lavoro dei marxisti rivoluzionari non come una generica più o meno scettica attesa di avvenimenti che vengano con impreviste novità e svolte a segnare al movimento la nuova strada, ma come un continuo confronto degli accadimenti storici con la precedente «attesa» e «previsione» che il partito, nella sua viva organizzazione e partecipazione alla azione storica, è in grado di trarre, sia pure tra continue lotte, dalla teoria che ne costituisce la caratteristica e la piattaforma, ci siamo proposti di presentare quanto i marxisti avevano sviluppato in ordine al procedere della storia sociale in Russia, e al suo confronto coi dati storici degli sviluppi europei e mondiali precedenti e contemporanei.
La esposizione è stata divisa in tre tempi. Una Introduzione ha naturalmente ricollegato il tema ai molteplici sviluppi precedenti che un così importante argomento aveva già ricevuti nelle nostre convocazioni ed esposizioni scritte fin dai primi anni di questo dopoguerra, e ha impostato il problema: battere in breccia tutte le asserzioni di nemici aperti e larvati sulla inadeguatezza del marxismo ad inquadrare lo svolgimento russo, e la pretesa necessità di apportare revisioni alla nostra teoria generale, al fine di farvi rientrare le «particolarità» russe.
La prima parte ha avuto il titolo: «Rivoluzione europea ed area 'grande slava'». In essa è stato tratteggiato un campo-tempo di sviluppo delle forme di produzione proprio della zona russa di oggi, nella sua distinzione da quello mediterraneo-classico e quello germanico-feudale; cercando di dare i grandi tratti di questi tre processi, e ponendo quello russo in rapporto ai dati storici sul modo di fissarsi ed organizzarsi sul suolo delle prime comunità, sul loro ordinarsi in classi sociali e in forme di produzione, e sulla maggiore o minore centralizzazione delle forme politiche e dello Stato. Pervenendo così ai tempi moderni, si è esposto quanto il marxismo originario ha sostenuto sulla funzione della Russia nel moto rivoluzionario europeo fin dalla rivoluzione francese, e in seguito sulle questioni sociali interne russe. Ciò nei contributi di Marx e di Engels nello scorso secolo.
Fermato così il doppio interessamento marxista alle rivoluzioni della Russia che mostravano, interferendo fatalmente, di incombere: la borghese e la proletaria, la seconda parte ha esposto le vedute particolarmente ricche e complesse su tale quesito di futuro storico dei movimenti interni della Russia, tanto premarxisti che soprattutto marxisti; fermandosi ai dibattiti e alle soluzioni avanzate nei vari congressi del partito bolscevico prima della guerra 1914. Anche qui si è andati verso la demolizione della ostinatissima idea, che in Russia si dovesse usare un metro storico speciale.
2 - Piano del presente rapporto

Sulla base del materiale in tal modo predisposto ed elaborato si viene direttamente al tema odierno: studio del modo storico con cui quella grandissima rivoluzione sotto i nostri occhi si è svolta, e valutazione degli eventi e della situazione che la hanno seguita.
Siamo quindi al tema essenziale, che non solo è quello che ha dato origine alla peculiare differenziazione del nostro gruppo da tanti altri, ma che in fondo sta al centro di tutta la lotta, di tutta la contesa politica del mondo contemporaneo: che cosa è oggi la Russia? E difatti dal lontano 1917 che il giudizio sulla situazione russa, la condanna o l'esaltazione di quanto ha il proprio teatro in Russia, e dei colpi di scena che questo mostra ad un mondo attonito, formano la pietra di paragone per i movimenti e i partiti che, anche in seno ai paesi più lontani da tale scenario, si contrappongono e combattono.
Tutto l'orizzonte odierno è occupato e soffocato da una interpretazione la quale in fondo è la medesima per i due settori tra loro nemici fierissimi, fra i quali l'agitato mondo contemporaneo è diviso da una barriera quasi fisicamente eretta, formidabile davanti agli occhi e ai passi di tutti. La Russia, col suo potente Stato guida e una fascia di satelliti e caudatari, starebbe dalla parte del proletariato mondiale e di una forma socialista della organizzazione sociale - mentre gli altri paesi alla cui testa si pongono pochi altri mostri di potenza statale a quella paragonabile, rappresentano la difesa, la conservazione e gli interessi legati all'attuale forma capitalistica della società economica, e alla classe borghese che ne sta alla direzione, con la bandiera della libertà democratica.
Fin dalle prime manifestazioni abbiamo combattuto, soli o pochissimi, contro questa interpretazione della vivente storia, e soli abbiamo dimostrato come rettamente la si avversa, in rigorosa coerenza al metodo marxista di lettura di tutta la lotta sociale del secolo che ci precede. Abbiamo denegato il parallelo Russia-socialismo fin dalle prime riunioni, e dalle prime pubblicazioni del nostro quindicinale e della rivista «Prometeo» (negli anni fino al 1951); abbiamo svolto le nostre formule fin dalle prime nostre adunanze a Roma, Napoli, Firenze, Milano (1), Trieste e così via. Abbiamo mostrato come esse si distinguono nettamente, oltre tutto, da quelle dei trotzkisti, che sono per la difesa di una Russia proletaria e socialista odierna, come da quelle di un sinistrismo banale cui manchi ogni dialettica forza per andare oltre la identificazione verbale di tutti i processi storici e di tutti gli imperialismi; abbiamo particolarmente smantellata una costruzione bislacca che vede nella struttura sociale formatasi in Russia una terza via al sanguinoso dialogo iniziato da un secolo tra capitalismo e comunismo, una pretesa dominazione di classi burocratiche. E tutto ciò abbiamo sviluppato mostrando come deriva dal cordone ombelicale del marxismo ortodosso unitario, anzitutto, e poi dalla dura difesa che ne fecero subito dopo la rivoluzione di Russia, e dinanzi ai primi sintomi della gigantesca ondata degenerativa che ha poi tutto travolto e che si designa col nome di stalinismo, l'ala sinistra dei comunisti marxisti italiani e rari altri gruppi internazionali.
Si tratta ora di una migliore esposizione di tutto questo che, dopo aver ripercorso (s'intende con metodo critico e non con ripetuta narrazione di una successione di fatti generalmente noti) le vicende della finalmente scoppiata doppia rivoluzione del 1917, pervenga al risultato di chiarificare i rapporti di produzione oggi in atto in Russia, con le leggi economiche alle quali rispondono, e alla dimostrazione che una tale società sta chiusa nei limiti del capitalismo; e alla fine di tutta la vicenda stabilisca il risultato acquisito, tutt'altro che da deridere, di una colossale rivoluzione borghese, che procede con epici sviluppi dalla vecchia Europa su tutto il Pianeta.
3 - Ulteriore trattazione sulla «tattica»

Anche dall'attuale rapporto, sebbene non se ne possa ogni tanto dimenticare la connessione, resterà fuori il tema a cui da tempo il nostro movimento lavora, e di cui si sono potuti raccogliere alcuni documenti notevoli: il dibattito di tattica e di metodo che preluse storicamente al nostro distacco dal comunismo ufficiale, che mano mano, da posizioni sempre meno accettabili ed eterodosse, è disceso fino al rinnegamento sistematico delle posizioni di partenza che si legano a quanto traemmo in comune, per dirla colle solite espressioni brevi, da Marx, da Lenin e dalla Terza Internazionale. Tale dibattito ebbe il suo sviluppo negli anni dal 1920 al 1926 e le sue posizioni, si dovrà mostrare, erano genuinamente marxiste, nella loro retta e tutt'altro che facile presentazione, ed hanno ricevuto dall'avvenire la meno gradita ma la più clamorosa delle conferme.
Tuttavia è importante precisare bene le nostre posizioni su questa rimessa in linea del delicato punto della tattica, indispensabile per ogni ritorno, auspicabile anche se non previsto troppo vicino, ai periodi in cui è di primo piano il settore dell'azione e della lotta rispetto a quello non offuscabile e sempre decisivo della dottrina di partito.
Indubbiamente la nostra lotta è per l'affermazione, nella attività del partito, di norme di azione «obbligatorie» del movimento, le quali devono non solo vincolare il singolo e i gruppi periferici, ma lo stesso centro del partito, al quale in tanto si deve la totale disciplina esecutiva, in quanto è strettamente legato (senza diritto a improvvisare, per scoperta di nuove situazioni, di ciarlataneschi apertisi «corsi nuovi») all'insieme di precise norme che il partito si è dato per guida dell'azione.
Tuttavia non si deve fraintendere sulla universalità di tali norme, che non sono norme originarie immutabili, ma norme derivate. I principi stabili, da cui il movimento non si può svincolare, perché sorti - secondo la nostra tesi della formazione di getto del programma rivoluzionario - a dati e rari svolti della storia, non sono le regole tattiche, ma leggi di interpretazione della storia che formano il bagaglio della nostra dottrina. Questi principi conducono nel loro sviluppo a riconoscere, in vasti campi e in periodi storici calcolabili a decenni e decenni, il grande corso su cui il partito cammina e da cui non può discostarsi, perché ciò non accompagnerebbe che il crollo e la liquidazione storica di esso. Le norme tattiche, che nessuno ha il diritto di lasciare in bianco né di revisionare secondo congiunture immediate, sono norme derivate da quella teorizzazione dei grandi cammini, dei grandi sviluppi, e sono norme praticamente ferme ma teoricamente mobili, perché sono norme derivate dalle leggi dei grandi corsi, e con esse, alla scala storica e non a quella della manovra e dell'intrigo, dichiaratamente transitorie.
Richiamiamo il lettore ai tanto martellati esempi, come quello famoso del trapasso nel campo europeo occidentale dalla lotta per le guerre di difesa e di indipendenza nazionale, al metodo del disfattismo di ogni guerra che lo Stato borghese conduce. Bisognerà che i compagni intendano che nessun problema trova risposta in un codice tattico del partito.
Questo deve esistere, ma per sé non scopre nulla e non risolve nessun quesito; le soluzioni si chiedono al bagaglio della dottrina generale e alla sana visione dei campi-cicli storici che se ne deducono.
Una successiva esposizione quindi, usando come materiale storico il dialogo polemico tra la sinistra italiana e Mosca, dovrà illuminare il problema tattico e rimediare ai gravi errori che tuttora circolano, ad esempio in merito al problema dei rapporti tra il movimento proletario internazionale e quelli dei popoli coloniali contro i regimi antichi interni e l'imperialismo bianco, massimo esempio di problema storico e non tattico - non problema di appoggio, perché bisogna prima spiegare in tutto perché ha totalmente ripiegato il movimento puramente classista del proletariato delle metropoli, e solo dopo si saprà come questa forza rivoluzionaria del livello post-capitalista si pone in rapporto alle, oggi potenti e vive in Oriente, forze rivoluzionarie del livello precapitalista.
Rispondere citando e peggio coniando a freddo una rigida formula di tattica, è in simili casi banale. Sostenere il diritto di riconiare ad ogni momento regole tattiche elastiche di comodo, questo sì è opportunismo e tradimento, contro cui sempre saremo spietati, ma contro cui opporremo assai più ferrate e meno innocue condanne d'infamia.
4 - Risultati acquisiti

Come risultati stabiliti nella precedente trattazione, su cui ora ci appoggiamo per andare più oltre, ci basterà ricordare i principalissimi.
La dottrina del materialismo storico ci dà ben ragione di quella che ai superficiali sembrerà originalità esclusiva della storia russa. La diversità del processo in cui la libera tribù errante si trasforma in popolo stabile organizzato si pone in relazione alla natura fisica del territorio, al clima, alla poca fertilità, alla immensa estensione di terre distanti dalle coste, al diverso ritmo dell'evoluzione rispetto a quella dei popoli delle calde rive mediterranee, al connesso diverso apparire dello schiavismo, al formarsi di uno Stato unitario. Diversa sorte hanno le popolazioni venute dall'oriente e giunte sui confini del crollante impero romano, di cui sfruttano ricchezze accumulate e dotazione di produzione avanzata - alle quali basta, per formare sulla terra una civiltà di produzione terriera, un ordinamento decentrato come quello dei signori feudali - e quelle rimaste più prossime all'Asia e nel cuore di territori immensi, esposte alle ulteriori ondate di orde in cerca di preda e di sede, la cui stabilità resta precaria finché affidata a capi locali, e che si fissano solo quando si forma una grande organizzazione statale a centro unico, di alta potenza ai fini non solo della guerra ma anche della produzione in tempo di pace.
Lo Stato è dunque fin dai primi tempi elemento essenziale della società russa; che grazie ad esso e alle organizzazioni militari e amministrative che lo hanno per centro supera gli attacchi continui da parte asiatica ed europea e diviene sempre più potente. Ma la sua funzione non è solo politica, bensì direttamente economica: alla corona e allo Stato appartiene circa metà delle terre e delle comunità rurali serve, e quindi la classe dei nobili non controlla che metà del territorio e della popolazione ed è in subordine rispetto al potere centrale dinastico: il re non è, come nel sistema decentrato germanico, l'eletto dei nobili, effettivi detentori del reale controllo economico e giuridico della società.
Questo tipico «feudalismo di Stato» arriva al tempo moderno e Marx vede in esso il pernio delle «Sante Alleanze» e la principale forza che, da Napoleone in poi, si impegna a soggiogare tutte le rivoluzioni borghesi in Europa, e più oltre resta pronto ad aiutare monarchie e borghesie contro i primi moti proletari.
Ponemmo agli atti l'interesse accanito di Marx per ogni sconfitta militare degli zar, da cui potesse uscire il crollo del baluardo reazionari slavo, quale che fosse il nemico.
Quindi allineammo i dati delle prime analisi delle forze sociali interne, e le risposte, di cui ebbe Engels a gettare le basi, circa il problema famoso del possibile «salto del capitalismo» cui lo stesso Marx aveva fatto dialettici accenni, pervenendo a scartare questa possibilità. Engels segue le prime formulazioni dei rivoluzionari russi che sottovalutano la sorgente industria e fanno leva sul movimento dei contadini, e discute, concludendo anche lui al tempo ultimo della sua vita per la nessuna probabilità che la comunità agricola slava possa svolgersi nel socialismo generale, prima che una completa forma capitalistica e mercantile si sia potuta delineare.
Nella seconda parte, come abbiamo ricordato, abbiamo seguito il lavoro di estrema importanza del nascente movimento marxista russo, poggiato sul proletariato industriale, e ricordate le sue successive storiche tesi, che così si possono riassumere:
1. Progressivo sviluppo del capitalismo in Russia e formazione di un grande proletariato urbano.
2. Conclusione negativa sulla efficienza rivoluzionaria della borghesia russa nel dirigere l'abbattimento dello zarismo.
3. Analoga conclusione sulla capacità dei movimenti fondati sui contadini, come i populisti, i trudoviki, i socialisti rivoluzionari.
4. Condanna della posizione dei marxisti di un'ala destra, poi definiti menscevichi, che con la falsa affermazione che la rivoluzione borghese non era affare interessante i proletari e i socialisti proponevano di lasciarne la direzione ai partiti democratici e popolari, praticamente abbandonando la lotta politica contro il potere zarista.
5. Ulteriore smascheramento di questa tesi controrivoluzionaria, contestando che si potesse appoggiare uno sviluppo della rivoluzione democratica basato su costituzioni elargite dallo zar e perfino sulla conservazione della dinastia, ossia formula insurrezionale e repubblicana della rivoluzione borghese.
6. Partecipazione del proletariato cittadino in prima linea a tutta la lotta, come storicamente avvenne nel 1905; potere rivoluzionario uscito dalla lotta armata che escludesse tutti i partiti borghesi costituzionali e si basasse sulla condotta della rivoluzione democratica ad opera dei lavoratori e dei contadini (dittatura democratica del proletariato e dei contadini).
7. Passaggio alla ulteriore lotta rivoluzionaria col programma socialista, solo a seguito dello scatenarsi, sempre previsto dal marxismo, della rivoluzione socialista proletaria in Europa dopo il crollo dello zarismo.
5 - La formula di Lenin

Lenin dunque prima della rivoluzione, come del resto in seguito, non ha mai preveduto un diverso processo della rivoluzione proletaria internazionale da scoprire attraverso lo sviluppo della crisi rivoluzionaria russa. Come marxista della sinistra radicale non ha mai dubitato che nei paesi capitalisti il socialismo sarebbe uscito da una insurrezione rivoluzionaria dei proletari e dalla attuazione della marxista dittatura del solo proletariato. Poiché doveva però lavorare al problema di un paese in cui la rivoluzione borghese era ancora da compiersi, ha previsto non solo che il proletariato e il suo partito rivoluzionario vi si dovessero con tutte le forze impegnare a fondo, ma, dato il particolare stato di ritardo nella caduta del reazionario regime zarista e feudale, ha enunciato la previsione ed il programma esplicito che la classe operaia dovesse togliere dalle mani della borghesia questo suo compito storico, e condurlo in sua vece, togliendole anche quello suo non meno caratteristico di capitanare nella lotta le masse contadine.
Se la formula, ad esempio della rivoluzione borghese, fu: direzione della classe borghese (ma anche allora più da parte dei suoi ideologi e politici che dalle persone di industriali, mercanti e banchieri) e trascinamento dei proletari delle città e dei contadini servi delle campagne nella scia della rivoluzione democratica; la formula russa della rivoluzione (sempre borghese, ossia democratica) fu diversa: direzione da parte del proletariato, lotta contro la stessa borghesia propendente ad una intesa di compromessi parlamentari con lo zarismo, trascinamento delle masse popolari e rurali nella scia del proletariato, che elevava, in questa fase storica, i contadini poveri al rango di suoi alleati nella insurrezione e nel governo dittatoriale.
Compiti di una simile rivoluzione, non già il socialismo, ma questi, ben definiti: guerra civile fino a battere polizia ed esercito zarista, abbattimento della dinastia e proclamazione della repubblica, assemblea costituente eletta lottando contro ogni partito borghese ed opportunista, poggiandosi sui Consigli - sorti nel 1905 - degli operai e dei contadini.
L'obiezione che questa non fosse una rivoluzione socialista non fermava Lenin nemmeno per un istante, essendo la cosa chiara in teoria. Si trattava della rivoluzione borghese, nella sola forma che assicurasse la sconfitta della controrivoluzione zarista e medievale: a questo solo (ma allora e anche dopo chiaramente grande e decisivo) risultato si consacrava la forza della dittatura proletaria: dittatura perché si usavano mezzi violenti e non legali, come le grandi borghesie avevano fatto in Europa alla testa delle masse, ma democratica perché il compito era la distruzione del feudalesimo e non del capitalismo, con i contadini alleati per questa stessa ragione e perché, mentre sono ulteriormente destinati a divenire un giorno alleati della borghesia contro il proletariato, lo sono anche ad essere nemici giurati del feudalesimo.
Lenin (ci pare indispensabile seguitare a sintetizzare il già detto a Bologna, rinviando i dubbiosi alla congerie di documenti e prove dati nel resoconto esteso) non si poneva dunque in tal fase il traguardo della rivoluzione socialista, e tale da condurre non ad una democrazia borghese al massimo radicale e conseguente, ma alla dittatura espropriatrice del capitale, perché lasciava tale ulteriore compito ad una lotta non più del quadro nazionale, come sarebbe stata quella della sopravveniente rivoluzione russa, ma ad una lotta internazionale.
Riteneva che, all'indomani di una guerra europea, sempre prevista da Marx e Engels come un urto tra slavi e tedeschi, la caduta dello zarismo avrebbe senz'altro messo in moto le masse lavoratrici di occidente, e che solo dopo che le stesse avessero preso il potere politico e i grandi mezzi di produzione concentrati da un pieno capitalismo avrebbe potuto la rivoluzione anche in Russia assumere contenuto socialistico. L'avvio dalla guerra era stato confermato da quella rovinosa col Giappone, ma la controrivoluzione aveva ben potuto schiacciare le forze del 1905, e per conseguenza l'abbattimento decisivo dello zarismo, finché la lotta non fosse risolta schiacciando sotto il terrore (anche a contenuto «borghese» come quello di Robespierre) le forze reazionarie, era sempre un risultato pregiudiziale rispetto all'avvento del socialismo. Mostrammo con Trotsky che la forza proletaria internazionale era da Lenin invocata, prima che per uno sviluppo sociale collettivistico, per sostenere il potere rivoluzionario sorto in Russia contro un ritorno zarista. Lo stesso infatti avrebbe significato il giogo per i proletari e contadini russi pervenuti al potere democratico, e per i lavoratori occidentali levati contro la borghesia capitalista.
Infatti fin nel 1917 e dopo altra serie di eventi, validi furono i tentativi di ritorno dello zarismo, fiancheggiati da forze di occidente, e molti anni richiese la lotta per liquidarli. Giusta quindi la graduazione delle fasi storiche nella potente veduta di Lenin, e sciocca esercitazione estremista sarebbe quella di presentarlo sicuro pronosticatore del socialismo in Russia.
Questa apparente spiegazione di sinistra dell'opera di Lenin servirebbe solo al gioco insidioso di mostrare che si va al socialismo traverso forme impastate con ingredienti democratici, storicamente; e socialmente con elementi contadini-popolari, il che è la forma centrale della degenerazione e della vergogna presente.
6 - Confronto con l'evento

Il tema attuale è stabilire se la Russia è andata più avanti o meno avanti di quanto in quella prospettiva era contenuto. Se gettassimo un ponte tra quelle che dal 1903 al 1917 sembravano disquisizioni piuttosto lontane da pratici effetti, e quella che è la situazione di oggi 1955, in cui noi radicatamente e fondatamente troviamo la piena forma capitalistica in via di poderosa diffusione in Russia, e troviamo poggiata ed intrecciata con essa una vera orgia di «valori» democratici, popolari, alleanzisti, vedremmo che è di buon diritto concludere che Lenin aveva ben previsto e la storia è giunta dove lui diceva, grazie ad uno sforzo gigante che il proletariato russo si è addossato, e il cui bilancio odierno è: «costruzione di capitalismo».
Con ciò resterebbero provati tutti i nostri punti: che con la chiave marxista l'antica e nuova storia di Russia si è potuta egregiamente leggere; che Marx ed Engels a ragione le pronosticarono gli orrori tremendi dell'inferno capitalista; che Lenin dette un'impeccabile costruzione marxista della via per uscire dal giogo di un formidabile potere e regime precapitalista, e una teoria felicissima della impotenza della borghesia a farlo, e della sua surrogazione storica da parte del proletariato. Ciò con pienissimo diritto di dire che in questo non aveva Lenin giustapposta alla teoria marxista classica alcuna parte nuova: la nascita del comunismo proletario è dialetticamente un fatto nazionale ed internazionale: non poteva nascere e formarsi che dove la forma di produzione moderna aveva trionfato e ciò non era avvenuto che in quadri nazionali (Inghilterra Francia ecc.) ma, apparendo da tali nazionali sbocchi, come teoria e come organizzazione e partito operante, doveva porsi subito e fin dal primo momento davanti non solo il binomio capitalismo-proletariato, ma il vero vivo quadro mondiale di tutte le classi e di tutti i moti delle società umane in tutti i gradi di sviluppo.
Il «Manifesto» contenne l'applicazione di tale principio ad un orizzonte universale, e da allora i comunisti, quando ogni altra vestale si sia lasciata sedurre, tengono accesa la fiamma di qualunque vera incandescente rivoluzione.
Questa la vera visione ed unica impostazione marxista per i complessi problemi di tutte le società non svolte ancora fino al gran duello di padroni ed operai, per tutte le classi marginali e impure di quelle società che pure hanno ormai per scheletro vivo il «modello» capitalistico dell'economia.
7 - Storia di mezzo secolo

Se tutto questo agli estremi è verissimo non si può tuttavia considerare i soli estremi di questo arco di cinquant'anni, tra la teoria tracciata dal 1905 e la struttura, consolidatasi nei fatti, del 1955. Questo ponte storico non è di una sola campata, e ciò non perché non possa esserlo, ma perché si è trattato forse dei 50 anni più densi di tutta la storia conosciuta a cavallo di due grandi guerre universali, e, per la Russia che ci riguarda, di almeno tre grandi rivoluzioni, e di un corso a metà rivoluzionario e a metà controrivoluzionario che (se non è caso unico nella storia dei modi di produzione) va indiscutibilmente più a fondo caratterizzato.
Non fornendo la teoria nel senso marxista delle arcate intermedie, che insieme definiscono tutto il difficile ciclo, si può al solito farsi prendere la mano dal semplicismo.
Sì, il partito russo degli operai rivoluzionari e dei socialisti comunisti pose a se stesso lo scopo storico di pervenire all'avvento del capitalismo mercantile e democratico, a condizione che accettando tale consegna (e dedicando ad essa le proprie forze di classe protagoniste di altro grande compito storico) si garantisse la cancellazione dall'Europa, col ferro e col fuoco, della mostruosa costruzione dello Stato degli zar, respingendone per sempre il ricordo nel buio del passato.
Sì, la gigantesca lotta, che si è dopo in alterne vicende svolta, non ha avuto altro risultato che questo, e si deve negare che vi siano nella Russia di oggi forze dominanti all'opera per la realizzazione di forme ultra-capitaliste, con lo stesso criterio che non ve ne sono nei paesi del capitalismo di occidente, consistendo la differenza nella distinzione tra un capitalismo in crescita fiorente ed uno in fase di inflazione che preannunzia il declino.
Ma è errato concludere seccamente da questo che, data questa collimazione fra quanto il partito tracciò, e quanto la storia ci presenta, non vi è stata in Russia che una rivoluzione borghese nel senso completo che borghese fu quella che diciamo di Kerensky e borghese quella di Lenin, stando esse nel rapporto (per così dire) di quella di Mirabeau con quella di Robespierre.
In questo sviluppo sosterremo che se la forma di produzione in Russia non è che borghese, borghese non fu l'Ottobre, ma proletario e socialista, dopo aver messo in loro luogo i fattori economici e sociali, le classi, i partiti, e i rapporti politici del potere.
Un simile svolgimento non è definibile che nel quadro internazionale della storia dei recenti decenni, e nella chiusura di questa premessa ricorderemo i tre caratteri storici che l'Ottobre in sé contiene e che lo portano enormemente più in alto del semplice contenuto di avere per sempre distrutto lo zarismo, che con i risultati soli del febbraio sarebbe probabilmente tornato alla rivincita, come tentò disperatamente di farlo e come una larga parte della borghesia mondiale avrebbe incoraggiato - come anzi di fatto incoraggiò, spezzandosi le corna contro la dittatura integrale dei bolscevichi.
8 - Distruzione della guerra

La stretta relazione stabilita tra la disfatta dell'esercito zarista e la rivoluzione politica, perseguita nelle anelanti impazienze di Marx e di Lenin in tutte le guerre che registra la storia europea - ben possiamo dire in rapporto all'uso puramente indicativo che facciamo dei nomi personali dalle coalizioni del primo '800 fino alla prima grande guerra 1900 - si confermò nella politica condotta, senza indietreggiare davanti alle più tragiche conseguenze, dal potere di Ottobre: favorire lo sfasciamento dei reparti, smontare il fronte, dominare ogni ubriacatura interna al partito, purtroppo anche dei migliori, e anche dei definiti sinistri, per una versione nazionale e patriottica della guerra che invece fu con successi veramente grandiosi spezzata senza pietà.
Questa politica illimitatamente rivoluzionaria, laceratrice di qualunque ipocrisia, spinta alle più estreme conseguenze, ispirata alla rivendicazione del disfattismo senza riserve, dello svolgere la guerra di difesa della patria in guerra civile, fu passata alla prova grandiosa della rovina del potere militare tedesco, dei fronti sfondati non da una offensiva da ovest ma da una capitolazione e dalle fraternizzazioni da est.
Non poteva avere un simile contenuto reale una rivoluzione borghese, inseparabile per motivi intrinseci, da noi a lungo esposti (per esempio nella trattazione alla riunione di Trieste del 29-30 agosto 1953 il cui resoconto scritto, col titolo «Fattori di razza e nazione nella teoria marxista», è apparso nei nr. 16-20/1953 de «Il programma comunista») dal favorire i valori e gli istituti a carattere nazionale e patriottico. Mostrammo una volta che Robespierre dalla tribuna parlamentare rinfacciò agli inglesi suoi nemici giurati la loro azione contro le influenze francesi oltre Atlantico, condotte contro Luigi XIV e XVI. La rivoluzione borghese non spezza la linea della storia nazionale, può solo una rivoluzione proletaria osare tanto. Oggi sì, che la linea del potere russo è patriottica ed esalta i vinti di Port Arthur e Tsushima cui Lenin aveva lavorato a tagliare i garretti, e non meno i difensori che stavano sullo stomaco di Marx da Sebastopoli, e fino le imprese di conquista di Pietro il Grande.
9 - Liquidazione degli alleati

Altra caratteristica della politica rivoluzionaria bolscevica è la progressiva lotta contro i transitori alleati della fase precedente, che uno dopo l'altro vengono messi fuori combattimento pervenendo ad un puro governo di partito. Non è sufficiente qui cercare una analogia con le rivoluzioni borghesi nelle lotte tra i vari partiti dal 1789 al 1793 in Francia, perché l'analogia si limita al metodo di azione. Non diremmo ad esempio che un carattere originalmente proletario della rivoluzione russa sia stato il terrorismo politico. Hanno avuto il terrore le rivoluzioni della borghesia, in Inghilterra, in Francia, in molti altri paesi, e un tale metodo in Russia era decisamente invocato anche da non marxisti, come i populisti della sinistra e i socialisti rivoluzionari, in quanto si trattava di distruggere i partiti che sostenevano lo zar.
Ma la dialettica posizione assunta in tutto lo sviluppo dai bolscevichi, partita da una surrogazione ai compiti della borghesia per giungere alla dispersione dei suoi partiti, e svolta attraverso la transitoria marcia con alleati semi-borghesi e contadini, per finire a cacciarli dal governo e da ogni diritto di partecipare allo Stato, risponde alla originale posizione dei marxisti, che fin da prima del 1848 si prospettano chiaramente una prima lotta al fianco di alleati borghesi, liberali, democratici, ed un successivo passaggio al deciso attacco contro tutti costoro e contro le fazioni piccolo-borghesi. Tale previsione è saldamente fondata su una anticipata inesorabile critica alle ideologie proprie di questi strati, che li fanno nemici immancabili del proletariato.
Questi sviluppi caratteristici di tutte le lotte tra classi hanno innumeri volte condotto alla sconfitta del proletariato e alla spietata distruzione delle sue forze ed organizzazioni, come nei classici eventi di Francia. Per la prima volta il partito proletario in Russia è giunto vittorioso all'ultimo episodio delle fasi della guerra civile, liberando il campo di tutti i successivi ex-alleati, che mano mano passavano alla controrivoluzione aperta, e la vittoria nelle ultime battaglie è rimasta nelle mani del partito. Qualunque sia stato il seguito, che non ha visto un rovescio nella guerra civile, ma ben altro processo, questa esperienza storica è veramente originale e resta un effettivo patrimonio del potenziale rivoluzionario, disperso poi per altre vie, e per la smaccata applicazione di alleanze e combutte destituite di ogni dialettica originale autonomia del partito di classe e delle esclusive sue posizioni.
Abbiamo molte volte svolto il concetto marxista che le esperienze delle controrivoluzioni sono alimento prezioso al duro cammino, come nel caso della Comune di Parigi da Lenin così fondamentalmente invocato.
Quindi questi risultati, se anche poi dispersi o svaniti, valgono per noi a provare che dopo Ottobre, e prima che avesse il tempo di porsi il compito, che nel seguito studieremo, di natura economica produttiva e sociale, il potere politico pervenne effettivamente nelle mani del proletariato, che per la situazione internazionale fu portato chiaramente se pure non definitivamente oltre i limiti della dittatura democratica ed oltre quelli dell'alleanza con partiti di base popolare-contadina, quindi nella sfera storica della rivoluzione politica socialista, cui mancarono poi gli apporti che solo la rivoluzione degli operai di occidente avrebbe potuto arrecare.
10 - Demolizione dello Stato

Il trapasso dalla rivoluzione puramente democratica, sia pure coi vari partiti socialisti in prima fila, all'Ottobre bolscevico, non fu possibile senza che tutta la questione dell'ascesa al potere del partito operaio nei paesi avanzati fosse rimessa in luce, e con essa la integrale teoria marxista della violenza nella storia, e della natura dello Stato politico.
Questa grande battaglia non fu solo teoretica, come nelle pagine di «Stato e rivoluzione» e nelle polemiche che impegnarono tutto il mondo del primo dopoguerra, e non fu solo organizzativa in quanto si attuò radicalmente la scissione tra i rivoluzionari della Terza Internazionale e i revisionisti e traditori della Seconda. Fu vera battaglia politica e si svolse armi alla mano negli episodi tremendi, quando vedemmo socialdemocratici divenuti boia del capitalismo pugnalare la rivoluzione e la dittatura rossa in Germania e in Ungheria, e lo stesso scontro prepararsi e svolgersi nell'intera Europa.
Ammettiamo che si fosse solo giunti all'attuata, insurrezionale, terrorista anche, dittatura democratica di operai e contadini, sola possibile erede storica del potere in Russia, ma non oltre. Sarebbe rimasta una sola esperienza, una sola eredità alla storia rivoluzionaria, e questa: sono necessari insurrezione, guerra civile, dittatura, terrore, ma solo per uscire dalla forma medioevale; non altrettanto per uscire, successivamente, dalla forma borghese e capitalistica.
Ma nella ulteriore avanzata del potere proletario bolscevico in Russia poté la lotta divenire tutt'uno con quella delle forze avanzate dei proletari comunisti che nei paesi d'Europa avevano davanti non più un obliato medioevo, ma la moderna democrazia del capitale, e che impararono (in linea con i compagni che in Russia avevano dovuto jugulare anche i socialisti sedicenti, che stavano all'ombra di idee borghesi e piccolo-borghesi, e di democratici pacifismi di classe, che sostenevano, dalla caduta in poi dei regimi feudali, doversi la lotta condurre negli ambiti legalitari, e si erano rivelati puri controrivoluzionari, alcuni fino al malcelato legame con lo stesso zarismo ancora tramante congiure) la necessità, in fase storica ben ulteriore rispetto alla conquistata libertà borghese, la necessità della violenza e della dittatura della classe oppressa dal capitale.
Benché la rivoluzione borghese classica avesse contenuto in sé la necessità dello smantellamento del precedente organo di Stato, in quanto fondato sui vecchi ordini, sui privilegi degli ordini stessi, e sulla diversa potestà giuridica dei componenti la società, solo la lotta della rivoluzione russa nella fase di Ottobre poté dare base storica e positiva alla esigenza che anche lo Stato giuridico delle moderne costituzioni proclamanti l'eguaglianza e libertà di tutti e basate su rappresentanze universali senza distinzioni di ordini, anche un tale Stato, come stabilito dalla prima ora da Marx e dal «Manifesto», non era che organo di dominio di classe, e un giorno la storia lo avrebbe a sua volta stritolato in frantumi.
Non è dunque permesso dire che la rivoluzione di Ottobre restò nei limiti di una rivoluzione borghese. Lo sviluppo sociale della Russia ha dovuto restare nei limiti delle forme e modi capitalisti di produzione, ed è un dato storico che il proletariato ha lottato per l'avvento di una forma borghese - e che doveva farlo. Ma non a questo si è limitata la sua lotta politica.
Come inseparabile parte della lotta politica del proletariato internazionale, che per organizzarsi in classe dominante deve prima organizzarsi in partito della propria caratteristica ed esclusiva rivoluzione, le forze e le armi che hanno indiscutibilmente vinta la battaglia di Ottobre vinsero per il proletariato e il socialismo mondiale, e la loro vittoria servirà nel materiale senso storico a quella mondiale del comunismo, sulle rovine del capitalismo di tutti i gradi e di tutti i paesi, Russia attuale ivi compresa.
Notes:
[prev.] [content] [end]
1. I resoconti di queste riunioni, apparsi nell'opuscolo «Sul filo del tempo» nel maggio 1953, si leggono ora nel volume «Per l'organica sistemazione dei principi comunisti», Edizione «Il programma comunista», Milano 1973. pagg. 11-27. [back]
SOURCE: «IL PROGRAMMA COMUNISTA», N. 10, MAGGIO 1955


STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI (II)

[Parte prima]

Content:
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (II)
Parte prima
Lotta per il potere nelle due rivoluzioni
1 - La guerra 1914
2 - Crollo da incubo
3 - Sette tesi sulla guerra
4 - Niente «teoria nuova»
5 - Le rivoluzioni simultanee?
6 - Abbasso il disarmo!
7 - Giovanili esuberanze
8 - Operaio e fucile
9 - Patria e difesa
10 - Vittoria nel solo paese
11 - La carta cambiata
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Notes
Source

Lotta per il potere nelle due rivoluzioni
1 - La guerra 1914

Non può lasciarsi da parte la relazione che corre tra la Rivoluzione in Russia del 1917 e la prima guerra mondiale scoppiata nel 1914, punto molto noto e da noi infinite volte ricordato. Tutto lo sviluppo storico che lega tra loro le vicende dei partiti marxisti in Europa e in Russia, e il legame tra le prospettive dell'avvenire che si formarono e le particolarità della loro vita politica interna e delle loro lotte di tendenza, hanno come cruciale passaggio la crisi storica vulcanica, il terremoto politico dell'agosto 1914 da cui 41 anni ci separano.
Benché non si voglia qui fare storia e le cose essenziali siano scritte nella testa di tutti, occorrerà pure richiamare i capisaldi.
A Sarajevo, capitale della Bosnia, provincia in prevalenza slava passata dall'impero ottomano a quello austriaco dopo le guerre balcaniche, il 28 giugno l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono del vecchissimo Francesco Giuseppe, passa con la moglie in carrozza scoperta. Sono abbattuti dai colpi di rivoltella di due giovani nazionalisti bosniaci.
Nelle poche tragiche settimane trascorse il governo di Vienna affermò che gli attentatori avessero confessato negli interrogatori di essere agenti del movimento indipendentista e del governo serbo. Il 23 luglio, si disse per segreto incitamento del kaiser Guglielmo, il ministro degli esteri austriaco Berchtold trasmise alla Serbia lo storico ultimatum che imponeva una serie di misure di politica e di polizia interna. Il termine era di sole 48 ore: la Serbia rispose in tono debole ma non accettò tutte le condizioni. Il 26 il primo ministro inglese Grey cercò di intervenire per una conferenza, cui la Germania si oppose. Il 28, un mese dopo l'attentato, l'Austria dichiarò guerra alla Serbia.
Il 29 mobilitò la Russia, il 30 la Germania, sulle due frontiere. Il 31 la Germania intimò alla Russia di revocare in 24 ore l'ordine di mobilitazione, e non avendo avuto risposta le dichiarò guerra l'1 agosto. Il 3 dichiarò guerra alla Francia, il 4 invase il Belgio senza dichiarazione di guerra. Solo il 6 agosto l'Austria dichiarò guerra alla Russia.
Come si sa, il governo belga decise di resistere con le armi all'invasione e la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania per il motivo che gli impegni internazionali per la neutralità del Belgio erano stati violati, al che il conte Bethmann-Hollweg ministro degli esteri oppose la frase famosa che i trattati non sono altro che pezzi di carta.
La storia ha poi acquisito che gli inglesi pochi giorni prima avevano assicurato a Berlino il non intervento in caso di guerra coi franco-russi, incoraggiando così il governo del kaiser a precipitarsi nel cratere.
Prima di vedere gli immediati riflessi dell'andamento della guerra sulla situazione in Russia, che qui interessa, è tuttavia necessario sgranare un altro rosario, quello della rovina del socialismo internazionale, che costituì l'altro aspetto di quei giorni di tragedia.
Situazione su cui occorre riflettere come ben diversa da quella di esplosione della guerra 1939. Allora in ogni paese si scontrarono due alternative nette: la posizione internazionalista di classe da una parte, dall'altra una posizione nazionale e patriottica di unanimità - e ciò con analogia assoluta in tutti i paesi. Nel 1939 tutto era mutato, e in dati paesi era presente un disfattismo borghese che fondò i movimenti contro la guerra di aperti «partigiani del nemico nazionale». Nel primo ciclo storico il nazionalismo trionfò, nel secondo si divise in due nazionalismi. Il ciclo in cui l'internazionalismo si leverà in piedi si attende ancora.
2 - Crollo da incubo

Due giorni dopo l'ultimatum dell'Austria alla Serbia il partito socialista germanico lanciò un forte manifesto contro la guerra in cui l'atto era condannato come «deliberatamente calcolato per provocare la guerra» e si dichiarava che per i governanti di Vienna non sarebbe stato «versato neppure un goccio di sangue di soldato tedesco».
Ma quando nei giorni 29 e 30 a Bruxelles, convocato d'urgenza, si riunì l'Ufficio Socialista Internazionale, già la situazione precipitava. Parlò il capo dei socialisti austriaci, il vecchio Vittorio Adler:
«Siamo già in guerra. Non attendetevi altre azioni da noi. Siamo sotto la legge marziale. I nostri giornali sono soppressi. Non sono qui per fare un discorso in un comizio ma per dirvi la verità che ora, mentre centinaia di migliaia di uomini marciano verso le frontiere, ogni azione è impossibile».
Non vi era più un Bebel, morto alla fine del 1913; per i tedeschi erano presenti Haase e Kautsky che discutevano direttamente con Jaurès e Guesde sulla estrema speranza di localizzare la guerra tra Austria e Serbia (magnifica l'attitudine dei pochi socialisti di Serbia).
Lo sciopero generale contro la mobilitazione viene proposto solo dall'inglese Keir Hardie (non indegno fu l'atteggiamento del piccolo British Socialist Party) e dalla Balabanoff che con Morgari rappresenta l'Italia. Ma chi risponde gelidamente? Il marxista ortodosso Jules Guesde:
«Uno sciopero generale sarebbe efficace solo nei paesi in cui il socialismo è forte, e faciliterebbe così la vittoria delle nazioni arretrate su quelle progredite. Quale socialista può desiderare l'invasione del suo paese, la sua sconfitta ad opera di un paese più retrogrado?».
Lenin non era lì, ma in un villaggio dei Carpazi con la moglie malata; malata con disturbi di cuore era Rosa Luxemburg. Grande fu il destro e non ortodosso Jaurès, che tuonò nel grandioso comizio davanti ad una immensa folla echeggiante le grida: abbasso la guerra! guerra alla guerra! viva l'Internazionale! Due giorni dopo il nazionalista Vilain abbatteva il grande tribuno con due revolverate, a Parigi.
La riunione non seppe fare altro che anticipare al 9 agosto il congresso mondiale socialista già fissato a Vienna pel 23. Ma come bene osserva Wolfe quei 10 giorni sconvolsero il mondo tanto quanto non hanno fatto i successivi decenni (2).
Intanto dal 31 al 4 agosto a Berlino si susseguono sedute della direzione socialista e del gruppo parlamentare, forte di ben 110 deputati al Reichstag.
Fu mandato Mueller a Parigi ove si svolgeva la stessa questione, ma i più dei compagni francesi dissero: la Francia è aggredita, noi dobbiamo votare sì ai crediti di guerra, e voi tedeschi no. A Berlino 78 voti contro 14 decisero il sì ai crediti con una dichiarazione che declinasse la responsabilità della guerra. Il 4 tutti i 110 furono dati votanti per i crediti (compresi i 14, tra cui il presidente del partito socialdemocratico tedesco Haase e perfino Carlo Liebknecht, per disciplina) sebbene uno, ma uno solo, Kunert di Halle, si fosse allontanato dall'aula.
Lo stesso giorno i dispacci di stampa portavano da Parigi la stessa maledetta notizia: i crediti per la difesa nazionale passati alla unanimità.
Nelle due capitali le folle per le strade dimostravano al grido di viva la guerra! Trotsky era anche lui quei giorni in Austria, nella capitale. Sbalordito ascoltò le grida di esaltata gioia dei giovani dimostranti. Che specie di idea li accende? egli si chiese. L'idea nazionale? Ma non è l'Austria la negazione stessa di ogni idea nazionale? Ma Trotsky viveva della fede nelle masse, e nella sua autobiografia trovò una spiegazione del tutto ottimista a questo sommuoversi scatenato dalla mobilitazione, salto nel buio delle classi dominanti (3).
3 - Sette tesi sulla guerra

Lenin non aveva, passato che fu fortunosamente dall'Austria, ove era un cittadino nemico, nella neutrale Svizzera, notizie sicure sul contegno dei socialisti russi. Si era detto che tutta la frazione alla Duma dei socialdemocratici, anche menscevichi, aveva rifiutato il voto ai crediti di guerra. Ma alcune cose gli erano rimaste nella gola:
Kautsky, che egli ancora considerava un suo maestro, aveva nella discussione per il voto opinato per l'astensione, ma aveva poi con mille sofismi giustificato e difeso il voto favorevole stabilito dalla maggioranza. Aveva poi appreso che a Parigi Plechanov si era dato a fare il propagandista per gli arruolamenti nell'esercito francese. Lenin traversò giorni di rabbia e di furore fino a che non si orientò per la necessità di tutto ricominciare e defenestrare i nuovi traditori. Appena poté riunire sei o sette compagni bolscevichi, presentò loro sette scarne tesi sulla guerra. Erano lui e Zinoviev con le compagne, tre deputati alla Duma e forse la russo-francese Inessa Armand.
Primo. La guerra europea ha il tagliente definito carattere di guerra borghese dinastica e imperialista.
Secondo. La condotta dei capi della socialdemocrazia tedesca, partito della seconda Internazionale (1889-1914), che hanno votato i bilanci di guerra e che ripetono le frasi borghesi e scioviniste degli junker prussiani e della borghesia, è diretto tradimento del socialismo.
Terzo. La condotta dei capi socialisti francesi e belgi, che hanno tradito il socialismo con l'entrare nei governi borghesi, comporta eguale condanna.
Quarto. Il tradimento del socialismo da parte della maggioranza dei capi della Seconda Internazionale significa il crollo politico e ideologico di questa. La causa fondamentale di questo crollo è il predominio attuale dell'opportunismo piccolo-borghese.
Quinto. Sono false ed inaccettabili tutte le giustificazioni date dai vari paesi per la loro partecipazione alla guerra: la difesa nazionale, la difesa della civiltà, la democrazia e così di seguito.
Sesto. Il compito della socialdemocrazia in Russia consiste in primo luogo in una lotta senza sosta e senza mercé contro lo sciovinismo grande-russo e monarchico-zarista, e contro la sofistica difesa di un tale sciovinismo da parte dei liberali o costituzionali democratici russi, e parte dei populisti. Dal punto di vista delle classi laboriose ed oppresse di tutti i popoli di Russia, il minor male sarebbe la piena disfatta della monarchia zarista e del suo esercito, che opprime Polonia, Ucraina e molti altri popoli dell'impero.
Settimo. La consegna dei socialisti nel momento attuale deve essere una penetrante propaganda, estesa anche agli eserciti e alle aree di attività militare, per una rivoluzione socialista e per l'esigenza di volgere le armi non contro i propri fratelli, ma contro la reazione dei partiti e governi borghesi in tutti i paesi... l'azione illegale nel paese e nell'esercito... l'appello alla coscienza rivoluzionaria delle masse contro i capi traditori... l'agitazione in favore delle Repubbliche tedesca, russa, polacca.
Il testo fu adottato con pochi emendamenti o meglio aggiunte:
1. Un attacco al cosiddetto «centro» che aveva capitolato di fronte agli opportunisti, e doveva essere tenuto fuori dalla nuova Internazionale. Forse questo diretto colpo a Kautsky non uscì dalla penna di Lenin.
2. Un riconoscimento che non tutti i lavoratori erano stati preda della febbre di guerra, ma in molti casi si erano dimostrati ostili allo sciovinismo e all'opportunismo. Tale aggiunta fu forse dovuta alle notizie di quei paesi ove parte del movimento era sulla buona via (Serbia, Italia, Inghilterra, alcuni gruppi greci, bulgari, ecc.).
3. Un'aggiunta sulla Russia che Wolfe trova di indubbia fonte Leniniana in quanto costituisce «una caratteristica formulazione delle esigenze e delle parole d'ordine di una rivoluzione democratica in Russia». E l'abbiamo voluta porre qui perché ci riporta sul filone conduttore del nostro tema:
«Lotta contro la monarchia zarista e lo sciovinismo grande-russo, panslavista; propaganda per l'emancipazione e l'autodecisione dei popoli oppressi dalla Russia, con le parole d'ordine immediate: repubblica democratica, confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, giornata lavorativa di otto ore» (4)
Poche settimane dopo lo scoppio della guerra del 1914 la prospettiva dei marxisti rivoluzionari è dunque chiara.
In Europa: liquidazione della Seconda Internazionale e fondazione della Terza.
In Europa: lotta per liquidare la guerra non con la pace ma con l'abbattimento del dominio capitalistico di classe (rivoluzione socialista), previo rovesciamento di tutte le dinastie.
In Russia: perdita della guerra, fine dello zarismo, rivoluzione democratica con misure radicali. Passaggio a una rivoluzione socialista solo insieme a una simile rivoluzione europea (5).
4 - Niente «teoria nuova»

Questo ciclo viene raccontato nella ufficiale, stalinista Storia del partito bolscevico in modo da concludere al formarsi da parte di Lenin, e dinanzi al crollo del movimento europeo nell'opportunismo, di una «teoria nuova», che sarebbe quella della rivoluzione in un solo paese. Viene quindi in questo senso e a questo fine rivendicata l'adesione a tutta la inesausta crociata di Lenin contro i social-patrioti di ogni riva:
«Tale la concezione teorica e tattica dei bolscevichi nelle questioni della guerra, della pace e della rivoluzione» (6).
È invece evidente che, sotto pretesti più speciosi di quelli dei Guesde e dei Kautsky, le consegne clamorosamente date ai partiti comunisti nella seconda guerra mondiale, buttandoli tutti su un fronte in combutta con le borghesie, non hanno lasciato pietra su pietra della teoria di Lenin per la guerra, per la pace, e per la rivoluzione, in quanto essa non era che la «vecchia teoria» di Marx che i traditori del 1914 avevano analogamente dilaniata, e che Lenin a loro vergogna aveva gloriosamente riedificata. Che altro è la vittoria del paese retrogrado di Guesde a Bruxelles, se non l'eterna menzogna della deprecata vittoria dei fascisti sulla Francia o l'Inghilterra?
La falsificazione d'ufficio fa leva su due articoli di Lenin del 1915 e 1916. Quello del 1915 ha il titolo «Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti di Europa». Lenin fa molte riserve su questa consegna, giustissime. Essa stava nelle sette tesi nella forma: Stati Uniti repubblicani di Europa, coordinata alla rivendicazione delle repubbliche di Russia, Germania e Polonia. (Oggi tutte fatte, ma quando ci aggiungeremo quella inglese?). Poi giustamente il partito decise di soprassedere a questa parola politica, che poteva dar luogo a malintesi. Secondo Lenin gli Stati Uniti d'Europa fra Stati capitalistici (non solo dinastici) sono una formula inammissibile: ma ciò non perché formula ancora pre-socialista e solo democratica, in quanto tali rivendicazioni possono essere utili, ma perché nella specie un tale organismo sarebbe reazionario. Ottima e profetica opinione sulle varie federazioni e leghe europee oggi propugnate da tutte le parti, anche staliniste.
«In regime capitalistico gli Stati Uniti di Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie» (7).
Si scusi l'insistere nella digressione. Oggi sarebbero stati secondi di quelli di America, che hanno in quella spartizione ormai il posto del leone. Ma ciò non rende che più «aut impossibile aut reazionaria» la formula federeuropea.
O contro l'America, come li vedeva Lenin nel 1915, o sotto l'America come oggi li avanzano (e magari sotto la Russia, o sotto una loro intesa) gli Stati Uniti d'Europa non si formerebbero che contro le colonie e contro il socialismo.
Per noi, dice Lenin chiaramente, è più rivoluzionaria la situazione della guerra che quella del federalismo europeo (altro che aver adottata tutta la teoria, ecc., ecc., da parte delle citate sacrestie!).
La nostra parola sarebbe Stati Uniti del mondo, Lenin dice. Ma non ci conviene neppure questa, prima perché coincide col socialismo,
«in secondo luogo perché potrebbe generare l'opinione errata dell'impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri».
E qui che li vogliamo, quei signori. E il periodo successivo a questo che la storia ufficiale invoca:
«L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata la produzione socialista, si ergerebbe contro il resto del mondo capitalistico attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi [qui finisce la citazione degli alleatoni di Roosevelt, e prima di Hitler, dei castratori della rivoluzione e del pensiero di Lenin; ma noi seguitiamo] infiammandole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati» (8).
5 - Le rivoluzioni simultanee?

L'altra citazione di cui il testo indicato vuol fare stato è di un articolo dell'autunno 1916: «Il programma militare della rivoluzione proletaria» in cui è trattata apertamente l'ipotesi di un paese capitalistico in cui ha vinto il proletariato, che conduca una guerra contro paesi rimasti borghesi, e vi porti la rivoluzione. Un tema che più volte abbiamo fatto nostro, e che soprattutto sta a mille miglia dalle formidabili buffonate della «coesistenza pacifica», della «emulazione» e della «difesa contro l'aggressione», in quanto quella guerra sarebbe guerra di classe, di squisita aggressione, e soprattutto di non dissimulata dichiarazione al proletariato del mondo di altro non attendere che il momento in cui sia possibile attaccare la fortezza dello sfruttamento capitalistico.
Il volgare trucco sta nel passare dall'una all'altra di queste tesi: conquista del potere politico in un solo paese - costruzione del socialismo in un solo paese capitalistico dove si sia conquistato il potere - costruzione del socialismo nella sola Russia. Ed è quest'ultima cosa che sosteniamo appartenere al regno dei sogni, come i fatti economici palpabili - nella seconda parte di questo rapporto - ci ripeteranno.
Ecco la gran balla, che vuole giustificare la nuova teoria (per poi cacciarsela, nuova o vecchia che sia, sotto le piote). «Questa teoria differiva radicalmente dalla concezione diffusa tra i marxisti nel periodo del capitalismo pre-imperialistico, allorché i marxisti ritenevano che il socialismo non avrebbe potuto vincere in un solo paese ma avrebbe trionfato contemporaneamente in tutti i paesi civili». E poi: Lenin distruggeva, ecc. (9).
Questa non è che una favola fabbricata parola per parola e di cui Lenin non si è mai occupato. Chi mai ha creduto a questa storia del socialismo simultaneo in tutti i paesi? Né i sinistri, né a maggior ragione i destri del marxismo. E i paesi civili, quali sarebbero poi stati? La Russia certo no, ma la Francia, l'Inghilterra, l'America. E la Germania? A sentire i collitorti del 1914, quelli del 1941, e quelli di oggi che per colpire la comunità europea di difesa rialzano questo abusato spauracchio del tedescone in armi, la Germania è più incivile... dell'Ottentozia!
Prima tuttavia di continuare a disperdere l'equivoco centrale che anima tutto il racconto della storia proletaria ad usum Kraemlini, occorre fare un'osservazione. Questo preteso dualismo tra due teorie, la vecchia e la nuova, l'una sorta dalla situazione del capitalismo pre-imperialista e seguita, con relativa tattica, dalla Seconda Internazionale, e l'altra che sarebbe stata scoperta e instaurata da Lenin, sulle esperienze della fase (tappa) imperialista più recente, non è solo la stimmata propria dell'opportunismo stalinista.
Lo stesso opportunismo della II Internazionale viveva di una pomposa (e schifosa) nuova teoria: quella che si vantava di aver fatto giustizia di un Marx quarantottesco e catastrofico, autoritario e terrorista, e che aveva infatti modellato, in luogo dell'ispido corrusco «red terror doctor», il molto onorevole parlamentare socialdemocratico in tuba e sciammeria (vedemmo di tali insetti perfino a Mosca), schifante il partito di classe e corteggiante i sindacati economici panciafichisti e gradualisti, pompiere di ogni azione delle masse, e finalmente, tra i furori bianchi di Vladimiro Ulianov, nonché di noi ultimi fessi, votatore dei crediti per il massacro imperialista. Era la teoria revisionista di Bernstein e soci, e cantava l'eterno motivo puttanesco: quei tem-pi so-no pas-sa-ti...
Orbene, la stessa vecchia storia della vecchia teoria ottocento di barbon Carlo, e della nuova teoria novecento che si osa affibbiare a Lenin, ma è patrimonio di uno scimmiesco esercito di mandrilli retrospelati che osano farfugliarne il nome, è propria di tanti gruppetti che stalinisti non si dicono, perché non si accorgono di esserlo, e che - come tante volte staffilammo - si danno a ricarenare la barca della rivoluzione, che avrebbe dato in secco perché non c'erano loro, poveri cercopitechi, a disegnare la nuova teoria, forti di quello che Marx non seppe, e Lenin cominciò appena a compitare; di tanti gruppetti che ad ogni tanto in una paurosa «bouillabaisse» di dottrine o di masturbate letture annunziano di darsi a «ricostruire il partito di classe». Lasciamo questi messeri alle loro esercitazioni (che falliscono soprattutto a quello scopo in cui è l'uzzolo misero che li muove, fare del rumore) e torniamo alla manipolazione cremlinesca.
6 - Abbasso il disarmo!

L'altro apporto alla teoria della «rivoluzione in un solo paese» è tratto da quelli del concilio di Mosca da altro articolo, dell'autunno del 1916, che tratta altro tema: cioè batte in breccia, come aveva fatto l'altro del '15 per gli Stati Uniti d'Europa, un'altra «parola» che gli elementi di sinistra del movimento socialista durante la guerra, e in ispecie quelli dell'Internazionale Giovanile Socialista, andavano lanciando in opposizione al social-sciovinismo: quella per il disarmo. È un possente attacco al pacifismo, coerente in Lenin, coerente attraverso i decenni nella «vecchia teoria» di Marx, inseparabile dalla disperata difesa dei marxisti radicali in tutti i tempi contro il pietismo filantropico-umanitario di radicali piccolo-borghesi e di libertari anche, contro le visioni gradualiste del riformismo fine ottocento, che in una general vespasiana di corporativismo bonzesco ed elettoralismo democratico voleva affogare forza, violenza, dittatura, guerra degli Stati e guerra delle classi, sozza veduta che sta agli antipodi del marxismo integrale ed originario, vendicato dalle mirabili mani dei cucitori di toppe. Da riproporsi oggi contro i raccoglitori di firme, in faccia ai banditori della crociata della pennina contro il cannone e il missile atomico (10).
Dall'articolo «Il programma militare della rivoluzione proletaria», che nelle nostre esposizioni (che nulla inventano o scoprono, ma solo ripropongono il materiale storico, dotazione del movimento anonimo ed eterno, nei quadri e nei cicli precisi del suo sviluppo) trova il suo giusto impiego, ecco il brano che fa comodo agli ufficiali:
«Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremamente ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercantile [applica et fac saponem!...]. Di qui, l'inevitabile conclusione: il socialismo non può vincere simultaneamente in tutti [corsivo di Lenin] i paesi. Vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri rimarranno, per un certo periodo, paesi borghesi e preborghesi.
Questo fatto provocherà non solo attriti, ma anche l'aperta tendenza della borghesia degli altri paesi a schiacciare il proletariato vittorioso dello Stato socialista. In tali casi la guerra da parte nostra sarebbe legittima e giusta. Sarebbe una guerra per il socialismo, per l'emancipazione degli altri popoli dall'oppressione della borghesia».
Passo che è tutto oro colato. Ma lo sono anche le frasi che precedono:
«La vittoria del socialismo in un solo paese non esclude affatto, e di colpo, tutte le guerre. Al contrario le presuppone».
Altro che pretendere, come fanno gli stalinisti, di essere in un paese socialista, e quindi preparare la pace universale! Sono in un paese borghese, il loro pacifismo è farisaico quanto quello borghese anti-1914, poi anti-1939, ed oggi anti-terza guerra (1970?). Farà la stessa fine.
E poi vi sono le frasi immediatamente successive.
«Engels aveva perfettamente ragione quando, nella sua lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, riconosceva categoricamente la possibilità di «guerre difensive» del socialismo già vittorioso. Egli alludeva appunto alla difesa del proletariato vittorioso contro la borghesia degli altri paesi» (11).
Poveri miei chierichetti! Proprio negli scritti cui fanno ricorso per mostrarci Lenin che partorisce la nuova teoria, questi, con l'abituale limpida condotta del ragionamento, mostra che quanto egli va dicendo era ben noto ai marxisti «del secondo periodo pre-imperialistico»; ossia ben 38 anni prima; e certo non era noto ad Engels perché se lo fosse sognato quella notte autunnale, ma in quanto si rifaceva all'abc del marxismo partorito dalla storia in sul 1840.
A noi interessa l'inquadratura storica e tutta la costruzione dell'articolo. Non potendolo tutto riprodurre ne diamo il possente scheletro.
7 - Giovanili esuberanze

Lenin era stato colpito dalle tesi di Grimm nella Jugend-Internationale. Nei programmi minimi dei vecchi partiti era inserita la voce: milizia di popolo, armamento del popolo. La guerra aveva reso di attualità questo problema: è noto che i sindacati anarcoidi sostenevano la tesi «rifiuto al servizio»: loro esponente al congresso internazionale di Stoccarda nel 1907 era stato Hervé che aveva sostenuta la giusta tesi dello sciopero generale con un discorso sconnesso teoricamente (giudizio dello stesso Lenin). Orbene i giovani marxisti di sinistra proponevano di sostituire alla parola: armamento del popolo, quella: disarmo. Lenin si oppose.
Vogliamo ricordare che anche nella gioventù socialista italiana in quegli anni fu discusso a fondo e non solo teoricamente ma anche in famosi processi il problema antimilitarista. Si condannò come prettamente borghese la posizione individualista idealista: Io sono contro lo spargimento di sangue e non prendo il fucile. Quando la questione verteva sull'entrata dell'Italia in guerra, affermammo che nel dirci neutralisti si presentava male la nostra posizione rivoluzionaria: noi non ci ponevamo come traguardo la «neutralità» dello Stato borghese, e nemmeno il suo compito di mediatore, e di propugnatore della assurda idea: disarmo universale, tanto borghese quanto quella del disarmo individuale. In pace o in guerra dicemmo (a nostra vergogna, Lenin non lo conoscevamo nemmeno): Siamo nemici dello Stato borghese: dopo la mobilitazione, quali che le forze nostre possano essere, non gli offriremo neutralità, non disarmeremo la lotta di classe, tenteremo di sgarottarlo.
Miei bravi giovani, Lenin dice, voi volete rivendicare il disarmo totale perché questa è la più chiara, decisa, conseguente espressione della lotta contro qualsiasi militarismo e qualsiasi guerra. Ma è qui che sbagliate. Questa premessa è idealistica, metafisica, non ha a che fare con noi: essere contro la guerra per noi è un punto di arrivo fondamentale, ma non un punto di partenza. La stessa abolizione della guerra è parola non nostra. La guerra è uno dei fatti storici che segnano le tappe del ciclo capitalista nella sua salita e discesa: abolire la guerra per fortuna non vuoi dire nulla, se no vorrebbe dire fermare quel ciclo prima che giunga la soluzione rivoluzionaria. Ma queste sono frasi nostre. Lenin va - talvolta un poco troppo - per il concreto. Egli spiega in quali casi non siamo contro le guerre.
In primo luogo espone le guerre rivoluzionarie borghesi sostenute dai marxisti. Ci rimettiamo alle nostre lunghe trattazioni del tema (12). La tesi che nel campo Europa tali guerre sono finite col 1871, quando Marx lo sentenziò con la formula «ormai tutti gli eserciti nazionali sono confederati contro il proletariato», è dal Grimm sostituita con l'altra «evidentemente falsa»: in quest'epoca di sfrenato imperialismo nessuna guerra nazionale è più possibile. Lenin avrebbe siglata la tesi se vi fossero state aggiunte le parole: nel campo europeo, tra le potenze europee, schiaffeggiando profeticamente la «liberazione nazionale» francese o italiana apologizzata nel 1945. Ma qui contrappone la piena possibilità - ancora attuale - di guerre nazionali extraeuropee, in Asia, in Oriente.
In secondo luogo le guerre civili sono guerre e non finiranno che con la divisione della società in classi: altro strappo alle famose «qualsiasi» guerre.
Infine Lenin cita la guerra rivoluzionaria non più borghese ma socialista di domani. Tre tipi dunque di guerre giuste, ossia che noi possiamo dover appoggiare. Secondo Lenin, ecco la giusta formulazione:
«La parola d'ordine e l'accettazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-16 sono soltanto una forma di corruzione del movimento operaio mediante la menzogna borghese».
Questa risposta, egli dice, colpisce gli opportunisti più che ogni platonica parola per il disarmo o contro ogni difesa della patria. Egli propone di aggiungere che ormai qualsiasi guerra di queste potenze: Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Russia, Italia, Giappone, Stati Uniti, non può che essere reazionaria, e in essa il proletariato deve lavorare alla sconfitta del «suo» governo, approfittandone per scatenare l'insurrezione rivoluzionaria (13).
Questa teoria è incardinata sul radicato anti-pacifismo di Marx ed Engels. Quale sarebbe, staliniani, la teoria nuova? Forse l'epoca del pieno imperialismo era nel 1939 chiusa? E si doveva invece difendere la patria prima in Germania ed Austria, sfottendola altrove - poi in Francia, Inghilterra, Italia, per salvarle dalla Germania? Evidentemente qui è di bisogno la terza teoria, poi la quarta e via senza fine; ma gira sempre quel disco che vi piace tanto: i tem-pi so-no mu-ta-ti...
Ma è l'opportunismo che pute sempre al modo stesso.
8 - Operaio e fucile

Poiché si tratta del movimento dei giovani, Lenin dopo aver detto che non si deve includere la consegna del disarmo, ma sostituire quella della milizia di popolo con quella di milizia proletaria, rileva la necessità della preparazione tecnica militare ai fini insurrezionali, altro punto su cui da vari decenni si batte, se pure ne abbiamo purtroppo viste le applicazioni solo al puro purissimo servigio di ideologie borghesi, in movimenti illegali sì ma promananti da Stati ed eserciti borghesi. Lenin ricorda perfino l'armamento delle donne del proletariato. «Come reagiranno le donne proletarie? Si limiteranno a maledire ogni guerra e tutto ciò che è inerente alla guerra, rivendicando il disarmo? Mai le donne di una classe oppressa veramente rivoluzionaria accetteranno una funzione così vergognosa. Esse diranno ai loro figli: 'Presto sarai cresciuto. Ti daranno un fucile. Prendilo e impara a maneggiar bene le armi. E una scienza necessaria ai proletari: no, non per sparare sui tuoi fratelli, sugli operai degli altri paesi - come accade in questa guerra attuale e come ti consigliano a fare i traditori del socialismo - bensì per combattere contro la borghesia del tuo paese, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria e alle guerre, non con le pie intenzioni, ma piegando la borghesia e disarmandola'» (14).
Questo discorso gli stalinisti non lo possono citare. Le donne le invitano appunto a formulare pii desideri; tanto pii, che invocano ad esempio massimo di disarmatore proprio Pio (lui, a petto di tal gentaccia, rispettabile) Dodicesimo.
Al fine di far capire ai giovani quella dialettica, che tanti dalle bianche chiome non ce la fanno ancora a smaltire, Lenin persegue la sua tesi fino a lasciare in piedi - teoricamente - l'espressione difesa della patria e guerra di difesa. Bisogna saper leggere, in questi casi. Nella letteratura marxista, essendo assodato che la frase «contro tutte le guerre» non si rinviene, essendo propria o di liberali o di libertari, e che deve intervenire una distinzione storica non sempre semplice tra le varie guerre e i diversi tipi di guerra, si era finito tuttavia con l'ereditare, ai fini di tale distinzione, la formula del linguaggio comune: quando si è attaccati ci si difende. Benché si sia lontani le mille miglia dal trasferire sul piano storico, come fanno i filistei, le regolette della morale individuale, si finì col chiamare guerre di difesa le guerre che andavano sostenute ed appoggiate, o almeno non sabotate. E notissimo che il primo Indirizzo della I Internazionale sulla guerra franco-prussiana contiene la frase: Da parte tedesca la guerra è guerra di difesa. Ed infatti era Napoleone III che baldanzosamente aveva sferrato l'attacco. Ma il fatto è che sulla fine di quel ciclo storico interessa a Marx più la rovina di Bonaparte che quella degli odiati prussiani, e Bonaparte (vedi la ricca messe di citazioni) è considerato alleato degli zar: nulla sarebbe cambiato se si fosse mosso Moltke per primo, e il grido non fosse stato: à Berlin! à Berlin!, ma nach Paris, nach Paris! (15).
9 - Patria e difesa

Che scrive infatti Lenin, almeno nella sempre ufficiale traduzione in italiano?
«Ammettere «la difesa della patria» nella guerra in corso [1916] significa considerarla una guerra «giusta», conforme agli interessi del proletariato - e nulla più, assolutamente nulla, poiché nessuna guerra esclude l'invasione. Sarebbe semplicemente sciocco negare «la difesa della patria» da parte dei popoli oppressi nella loro guerra contro le grandi potenze imperialiste, o da parte del proletariato vittorioso nella sua guerra contro un qualsiasi Galliffet di uno Stato borghese» (Galliffet fu il massacratore dei comunardi di Parigi) (16).
Noi, che non cambiamo mai le «proposizioni» o i «teoremi» della teoria, ma talvolta osiamo riordinare l'uso dei simboli, abbiamo messo in corsivo le parole nessuna guerra esclude l'invasione, per rendere evidente la chiosa.
Come non è dialettica la formula: Avversiamo tutte le guerre, così non meno metafisica e borghese è quella: Siamo contro le guerre, a meno che non siano guerre di difesa, e sia minacciato e invaso da un nemico il territorio nazionale, dato che la difesa della patria è sacra a tutti i cittadini di qualunque paese. Questa è appunto la formula dell'opportunismo che spiega come lo stesso giorno i francesi e i tedeschi votino nelle rispettive unanimità per la guerra nazionale. Le parole nessuna guerra esclude l'invasione richiamano un articolo dell'«Avanti!» del 1915 su Socialismo e difesa nazionale (17). Con la formula del dovere della difesa nazionale non si accettano talune guerre, ma proprio qualunque guerra. Sferrato dagli Stati borghesi l'ordine di aprire il fuoco, di qua o di là entrambi i territori sono in pericolo, alle volte uno degli eserciti abbandona per ragioni strategiche il proprio, anche essendo «aggressore», e gli esempi storici sono a iosa. Quindi noi distinguiamo tra guerra e guerra, ed anche se usiamo talvolta i termini popolari (noi invero vorremmo dar loro l'ostracismo) di guerra giusta o difensiva, per designare sbrigativamente una guerra che appoggiamo e di cui crediamo utile il successo al corso rivoluzionario, in realtà ci poniamo solo il problema dialettico storico: questa data guerra interessa il proletariato? È, come Lenin ha ora detto, conforme agli interessi del proletariato? Per la guerra 1914 si risponde: no, da nessuna parte. Ed hanno torto anche i socialisti belgi sebbene sia pacifico trattarsi di un paese neutro aggredito; hanno ragione i bravi compagni della non meno aggredita Serbia.
Ma ad esempio nel 1849 Marx ed Engels appoggiano l'Austria contro la piccola Danimarca, aggredita palesemente, e fanno, come ampiamente mostrato nel rapporto di Trieste sui fattori di razza e nazione, il medesimo per tutte le guerre fino al 1870. Avrebbero appoggiato le invasioni napoleoniche e negato alle guerre tedesche del principio del secolo la natura di guerre giuste, difensive, e perfino di indipendenza, come nella generale idea borghese e piccolo-borghese. Interessava la rivoluzione, allora, che vincesse il primo Napoleone e non la Santa Alleanza.
Comunque è fondamentale sempre in Lenin la preoccupazione che il partito tragga le sue decisioni non dal quadro integrale della nostra completa, complessa, mai seccamente dualistica, veduta della storia che si svolge, ma da una frase formale, che varie volte è una frase borghese. Noi troveremmo più esatto dire non che in dati casi ammettiamo la giustezza della guerra e la patria difesa, ma che davanti alla guerra in dati tempi e luoghi sabotiamo la guerra, in altri difendiamo la guerra. La parola patria è troppo aclassista, e Lenin nelle stesse più diffuse tesi 1916 ben fa propria la frase del «Manifesto» che patria, noi proletari, non ne abbiamo.
Comunque il pericolo di adottare alla leggera parole come quella del disarmo è davvero enorme e significa ripiegamento totale nella ideologia borghese.
10 - Vittoria nel solo paese

Non è stata una digressione inutile - anche se è stata ripetizione di già esposti concetti, tuttavia da martellare soprattutto ai fini di inchiodare che la teoria della guerra e della pace è fissa e immutata dai soliti oltre cent'anni - quella sulla considerazione della guerra generale scoppiata nel 1914, in quanto essa si lega strettamente al tema storico della rivoluzione di Russia, come si premise.
Chiariti i due testi di Lenin incaricati della condanna di due stolide ubbie: gli Stati Uniti in Europa e il disarmo europeo mondiale, torniamo al punto che si è voluto distorcere dagli staliniani: la rivoluzione in un paese solo.
I nostri testi si devono leggere pensando che non nacquero per andare a riempire un certo vuoto in uno scaffale della biblioteca aggiungendo un capitolo in astratto ad una astratta materia e disciplina, ma nel vivo di una polemica che era la sottostruttura storica di una reale battaglia di opposte forze ed interessi. Qui siamo nel vivo dello scontro tra Lenin e i fautori delle guerre. Bisogna seguire il nutrito dialogo che presto diverrà lotta armi alla mano sui più diversi fronti.
I marxisti rivoluzionari dicono: In nessun paese questa guerra può essere appoggiata, niente difesa della guerra, ma in tutti i paesi sabotaggio della guerra e anche della difesa della patria.
Gli opportunisti ed anche i più pericolosi centristi rispondono ipocritamente: Siamo pronti a farlo. Ma alla condizione che con matematica certezza, mentre noi fermiamo alle spalle l'esercito del nostro Stato, sia fermato anche l'altro. Se questa garanzia manca, non faremmo che difendere la guerra del nemico.
E chiaro che una tale obiezione apparentemente logica, afferrabile quanto lo sono tutte le odierne tesi popolari degli sciagurati attivisti che parlano al proletariato, contiene la bancarotta della rivoluzione. Così ad esempio nella guerra con l'Austria si riuscì a impedire, con sovrumani sforzi, che i parlamentari socialisti italiani votassero per i crediti, ma quando avvenne la frana di Caporetto, solo in quanto i borghesi ci fecero l'onore di attribuirla alla nostra propaganda (come tratterebbe un tal problema storico un Togliatti? Direbbe che è infamia far franare il Veneto, gloria la Sicilia? Tanto ad opera sua nulla franò), i nostri onorevoli volevano precipitarsi a votare i fondi per la difesa sul Grappa, e imboccare la via di tedeschi e francesi del 1914. Se fu bene o male averlo impedito non si può dire: certo è che si rivelò a luce meridiana la peste opportunista, che successivamente si dovè trattare a ferro rovente.
Non era Lenin tipo da arrestarsi a tale argomento. Solo un imbecille non è in grado di intendere che occorre che ogni partito rivoluzionario saboti la guerra del proprio Stato, egli disse ripetutamente. In verità la nostra consegna era proprio la più difficile e meno banale, e l'avvenire su questo punto ha molto insegnato sulla impossibilità di procedere sempre con frasi cristalline, e sull'autentica gloria della «oscurità rivoluzionaria» in cui teniamo il gran Carlo a maestro.
Comunque Lenin è qui irriducibile ed egli stesso scrive sulle sue dure dimostrazioni il titolo inequivocabile: controcorrente.
La storia non volle che egli, nella sua grandezza, vedesse venire il pericolo osceno di ripiombare impotenti nel limaccioso fondo della corrente, che sembrava a tutti noi capovolta ma purtroppo non lo era.
Bisogna sabotare la guerra da uno e dall'altro lato del fronte senza la condizione che il sabotaggio sia di pari forza, senza badare se dall'altra parte sia per avventura inesistente. Bisogna egualmente, in una tale situazione, con un esercito nemico che varca lo sguarnito fronte, cercare di liquidare la propria borghesia, il proprio Stato, di prendere il potere, di instaurare la dittatura del proletariato.
Parallelamente con la «fraternizzazione», con l'agitazione internazionale, con tutti i mezzi a disposizione del potere vittorioso, si provocherà il moto ribelle nel paese nemico.
La risposta è facile, da parte del centrismo: Ma se tale moto malgrado tutto fallisce, lo Stato e l'esercito nemico restano efficienti, e vengono ad occupare il paese rivoluzionario per rovesciare lo Stato del proletariato; che farete?
Lenin ebbe per questo due risposte: una sta nella storia della Comune, che non avrebbe esitato, potendo debellare la sbirraglia borghese di Francia, ad accogliere a cannonate anche i prussiani, ma in nessun caso avrebbe abbassata la rossa bandiera della rivoluzione. L'altra risposta ai contorti apologizzatori della guerra borghese, imperialista, controrivoluzionaria, fu appunto: la guerra. La nostra guerra, la guerra rivoluzionaria, la guerra socialista.
Contro lo stesso nemico allora? Allora la stessa guerra da noi difesa?, sogghigna il filisteo contraddittore. No, perché la nuova guerra è guerra di classe, perché non è condotta al fianco dello Stato borghese e del suo stato maggiore, già travolti; perché la sua non sarà vittoria di una coalizione imperialista ma della rivoluzione mondiale.
11 - La carta cambiata

Questo punto storico riguarda la possibilità di una manovra rivoluzionaria dell'Internazionale opposta a quella dei traditori del 1914, come del tutto opposta a quella che fu fatta nel 1939 e 1941.
L'opportunismo è il bill di non-rivoluzione, la tregua di classe interna concessa a tutti i belligeranti, fino a guerra finita.
Mostreremo che è trucco volgare assimilare questo vergognoso, sfacciato espediente di traditori alla pretesa adesione preventiva del movimento ad una teoria che imponesse la «rivoluzione simultanea» in tutti i paesi.
La formula di Lenin è il negato bill, la negata tregua in tutti i paesi in guerra non meno che in pace, la pressione verso l'evento rivoluzionario nella vittoria e nella sconfitta dello Stato, e soprattutto l'utilizzazione rivoluzionaria di questa.
Ovunque il rovescio di guerra ne desse la possibilità il partito proletario doveva prendere il potere: questa avrebbe dovuto essere la politica in Germania, questa in Francia e questa, diciamo subito, in Russia.
La Francia senza la Germania avrebbe dovuto avere un governo socialista; o la Germania senza la Francia. Entrambi tali governi avevano la possibilità di risolute misure anti-capitalistiche e soprattutto di afferrare alla gola gli industriali di guerra, e dovevano subito, dalla parte in cui si era vinto, non disarmare, ma organizzare un esercito rivoluzionario, per fermare quello nemico, per impedire lo jugulamento della propria rivoluzione.
La costruzione del comunismo in Russia, e in generale in un «solo» paese prevalentemente feudale e patriarcale, non ha a che vedere con questa tesi, e non si può poggiare su di essa: è altro paio di maniche.
Che dovevano fare i rivoluzionari in Russia? Perdio, è mille volte detto in tutte lettere: non il socialismo, ma una repubblica democratica. L'ipotesi del socialismo in un solo paese è ovvia, ma si scrive: paese capitalista.
Eccolo:?dalla vostra manica, signor baro, l'asso è uscito.
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Notes:
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2. B.D. Wolfe, «I tre artefici della rivoluzione d'ottobre», Firenze, 1953, pag. 836. [back]
3. L. Trotsky, «La mia vita», Milano, 1961, pagg. 200-202. [back]
4. Lenin, «I compiti della socialdemocrazia rivoluzionaria nella guerra europea», in «Opere», XXI, pag. 12. [back]
5. Cfr. anche, di Lenin, «La guerra e la socialdemocrazia russa» e «La situazione e i compiti dell'Internazionale socialista» («Sotsial - Demokrat», nr. 33 del 1° nov. 1914), in «Opere», XXI, pagg. 19-32. Per la Sinistra in Italia, cfr. la documentazione contenuta nella nostra «Storia della sinistra comunista. 1912-1919», cit. [back]
6. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S. - Breve Corso», Mosca 1945, pag. 145. [back]
7. «Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa», in «Opere», XXI, p. 313. [back]
8. «Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa», in «Opere», XXI, pag. 314. [back]
9. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S. - Breve Corso», Mosca 1945, pag. 145. [back]
10. Cfr. «Sulla parola d'ordine del 'disarmo'», in «Opere», XXIII, pagg. 92-102. [back]
11. «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 77. [back]
12. Cfr. fra l'altro i «Fili del tempo» apparsi nei nr. 10-14/1950 e 4-6/1951 di «Battaglia comunista», allora nostro organo quindicinale. [back]
13. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 83. [back]
14. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 81. [back]
15. Nel testo originale è stato scritto in tedesco sbagliato: «zur Paris! zur Paris!» [sinistra.net, giugno 2000] [back]
16. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 78. [back]
17. «Avanti!» del 21-XII-1915, riprodotto nella nostra «Storia della Sinistra Comunista, 1912-1919», cit., pagg. 259-261. [back]
SOURCE: «IL PROGRAMMA COMUNISTA», N. 11, GIUGNO 1955

STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI (XV)

[Parte seconda]

Content:
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (XV)
Parte seconda
Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica
1 - Politica ed economia
2 - Lezioni senza posa obliate
3 - Altra confusione a «sinistra»
4 - Le due pretese anime di Lenin
5 - Programmi e decreti
6 - Piani della vigilia
7 - Misure economiche immediate
8 - Compiti della rivoluzione
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Notes
Source

Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica
1 - Politica ed economia

Dal consolidamento del potere statale del partito bolscevico in Russia sono trascorsi poco meno di quarant'anni, ed essi stanno davanti a noi. Dobbiamo chiarire che le due parti di questo nostro lavoro non stanno in contrapposizione, ma sono stabilite a solo scopo di facilità espositiva. Con la nostra prima ricostruzione siamo andati dalla prima guerra mondiale e dalla caduta del feudale impero degli zar fino alla seconda rivoluzione del 1917 e al suo consolidamento di fronte ai tentativi di rovesciamento, che si pone al 1922. Sono otto tremendi anni durante i quali le armi non cessano, da molte e molte bande, di venire scaricate. In questo primo periodo portiamo in primo piano lo studio dei rapporti di forza tra le classi della società russa ed il problema della conquista e della difesa del potere politico: non perciò separiamo la questione politica da quella economica, inseparabili in linea generale nella nostra concezione; abbiamo anzi cercato di dare ad ogni tratto ragione dei rapporti produttivi e delle forme di proprietà russe in quel periodo di incandescente palingenesi. Nel periodo in cui ora facciamo ingresso, e che in sostanza considereremo iniziato con l'Ottobre 1917, solo in apparenza la detenzione del potere centrale dello Stato non subisce mutamenti, in quanto gli stessi non prendono mai la forma di aperta guerra civile, e la continuità del centro dirigente ed esecutivo inteso come ingranaggio amministrativo e militare non viene fatta vacillare e cadere da episodi di conflitti interni e dalle immani vicende della seconda guerra mondiale: meccanicamente parlando, lo stesso apparato statale e di partito traversa senza capovolgersi queste tremende prove della storia, il che non cessa di essere argomento di primo piano per i fautori politici di questo apparato, per i suoi nemici militari dell'Occidente capitalista, e per quei suoi nemici rivoluzionari tra i quali siamo noi, anche se pochi e poco conosciuti.
Ma, come abbiamo detto, al fondo delle cose l'evoluzione è ben altra da quella che è data da un potere stabile e dalla sua evolvente attività amministrativa e legislativa, con le connesse variazioni dell'economia sociale. Come nella prima parte il tema economico non passò in secondo piano, così non passerà in questa nell'ombra quello politico, quanto a gioco delle classi nella complessa società russa, quanto a gioco degli Stati nel mondo internazionale.
La questione del rapporto tra lotta politica per il potere e svolgimento dei rapporti di produzione è la questione centrale del marxismo. Da tutte le parti, e forse più gravemente da quella di non pochi gruppetti che pure affermano di condannare, come degenerato nell'opportunismo, il movimento che oggi fa capo alla centrale statale di Russia, questa questione viene ogni giorno più confusa: e ad ogni passo viene a noi fatto di rimetterla in chiaro. Le forme economiche si mutano in un processo ininterrotto nella storia delle società umane, ma questo processo si attua solo come effetto di periodi convulsi di lotta, in cui lo scontro politico ed armato di classi avverse spezza le barriere al partorirsi e all'ingrandire accelerato della forma nuova. È il periodo della lotta per il potere e del suo scioglimento a mezzo di una dittatura della forza di domani su quella di ieri, o della dittatura opposta, fino ad una successiva crisi, che ancora una volta nella fine della parte precedente dichiarammo con parole di Lenin. O questa alternativa, o la conservazione di forme antiche, nella loro essenza magnificata da un lato, maledetta dall'altro.
2 - Lezioni senza posa obliate

La tesi, che è quella su «Stato e Rivoluzione», si impose come fulgore abbagliante nel tempo di quella grande lotta e le fu dato nella dottrina e nella battaglia il nome di Lenin. Per un tratto tutti stettero o per essa o contro essa: non dubitarono che fosse vera e lottarono perché la storia la vedesse attuata; ovvero lottarono come dannati perché ciò non fosse, ma della potenza della tesi stettero sicuri, e tremarono che giunto fosse il momento in cui la dittatura «di Lenin» fosse imposta su tutto il mondo moderno. Passò quel periodo vitale e ardente, e dopo un breve intervallo ritornerà.
Ma in questo vile e stagnante interludio, da ogni lato, virulenti o appestati, Errore e Menzogna risalgono.
Un economista nostrano, Luigi D'Amato, ha pubblicato un volume di studi «Per la critica dell'economia marxista»: di essi fa parte un saggio finale sulla «Teoria marxista dello Stato» e sulla pretesa evoluzione di essa. La teoria è riferita correttamente:
«Sia Marx che Engels avevano fissato in alcuni punti precisi la concezione comunista dello Stato, secondo la quale lo Stato borghese è un organo del dominio di classe; e il proletariato deve conquistare il potere per servirsene come forza repressiva per schiacciare la borghesia. Segue a questa lotta una fase di transizione dalla società capitalista a quella comunista, che non può essere altro che la dittatura del proletariato. Nella fase ultima, quando le classi saranno sparite, sparirà anche lo Stato».
Fin qui, sebbene noi non citiamo che da un articolo di recensione, dobbiamo dire che l'ideologo avversario ha ben riferita la nostra dottrina.
Perché dunque in una trattazione ben condotta deve seguire un enorme strafalcione storico, a parte le teoriche preferenze e parteggiamenti?
«La grande revisione di questa teoria è ormai compiuta. La teoria di Marx e di Engels è stata cancellata, prima da Lenin, poi da Stalin. Lo Stato sarà conservato anche nel sistema comunista, fino a quando non verrà liquidato l'accerchiamento capitalistico. In conclusione il paradiso comunista, dello Stato senza classi, dello Stato non-Stato, della libertà insomma, è ancora molto lontano, oggi come trentotto anni fa, quando la grande e cruenta esperienza ebbe il suo tragico inizio».
Non ci preme il frasario sbagliato sul paradiso, la libertà, l'esperienza, e altri termini fuori elenco, che non sappiamo se addebitare all'autore. Il falso sta nella parte data a Lenin, e anche a Stalin. Il revisionismo socialista dell'anteguerra aveva preteso di aver cancellata la teoria di Marx ed Engels sulla dittatura, e Lenin la rimise poderosamente in piedi; e mai né con gli scritti né con la pratica rinunziò minimamente alla tesi della sparizione dello Stato, con la stessa decisione con cui, a conoscenza dello stesso avversario di oggi, sostenne ed applicò quella della dittatura.
Quanto a Stalin e ai suoi, mai hanno ammesso di avere mutata la teoria generale dello Stato. Essi hanno dichiarato ed operato che lo Stato di Mosca deve nel periodo attuale, sia pure di 38 anni, rimanere in effetto e potenza massimi: se la ragione fosse lo scopo di sfondare l'accerchiamento capitalistico non sarebbero certo dei revisori di Lenin e Marx. Lo sono, ma in quanto: a) dichiarano che in Russia non occorre più la dittatura, pretendendo che non vi siano da contrastare influenze sociali della forza capitalistica; b) dichiarano che lo scontro con l'accerchiamento darà luogo alla pacifica coesistenza; c) ammettono con questo, se pur nolenti, che il loro Stato è permanente, proprio per la ragione che ne dà la teoria Marx-Engels-Lenin, in quanto non si va verso la società senza classi ma verso la società capitalista.
3 - Altra confusione a «sinistra»

Ma non basta che al disordine e allo smarrimento contribuiscano d'accordo economisti capitalisti e rinnegati stalinisti: vi sono indirizzi che si dicono avversari degli uni e degli altri e che pure si atteggiano a rivedere quella che, per il loro spirito piccolo-borghese, è l'esperienza di Russia e di Lenin. Per costoro l'impiego dello Stato ha fatto cilecca, non perché il ciclo che perfino il D'Amato ha saputo riscrivere sia stato spezzato, ma perché il ciclo fino alla sparizione dello Stato sarebbe illusorio, improponibile. Per costoro non è vero che divisione di classi vuol dire formazione di potere di Stato, ma il contrario; ossia che potere di Stato vuol dire formazione di divisione della società in classi; perché Stato vuol dire burocrazia, burocrazia vorrebbe dire privilegio, concussione, arricchimento, sfruttamento del povero. L'esatto rovescio. Marx scoprì che lo Stato è mortale, questi suoi pretesi fautori scoprono che lo Stato è immortale. E allora trovano ricetta non nuova: la lotta per liberarsi dallo Stato non è lotta politica per il potere centrale: è lotta per iniettare tra le cellule della presente economia quella di una economia futura, guardandosi dal fondare Stati e dittature, guardandosi dal fondare partiti, perché partito e politica vogliono dire fame di potere, fame di ricchezza, dirigenza del lavoro altrui e quindi sfruttamento degli sforzi altrui, e nulla conta quanto si deduce dalla storia dei modi di produzione, delle forze e risorse incessantemente nuove della produzione: tutto conta quanto si deduce dalla cattiveria della umana natura... (120). Roba come si vede più che fradicia, e roba presentata con aria di trionfo da questi che sul serio si credono innovatori, sostitutori di teorie sorpassate, scopritori e duci di verità nuove. Questi fanno del binomio economia-politica non un dialettico rapporto ma un indefinibile pasticcio, e per la chiara impostazione del dato centrale sui capisaldi Classe-Stato-Rivoluzione fanno forse più male che i tradizionali nemici di Marx, Engels, Lenin, difensori dell'eternità dello Stato giuridico e politico, cui tanto spago sta dando lo stalinismo, e tanto flato.
Basta di costoro, ché altra è per ora la nostra via. Ci occuperemo di essi ancora, e localizzeremo le loro fonti, tra le quali distingueremo le nominabili dalle innominabili: e possono le prime essere quelle che solo in questo breve dopoguerra hanno col filone marxista avuto, sia pure senza successo e senza ulteriore speranza di averne, il primo contatto.
4 - Le due pretese anime di Lenin

Abbiamo dunque in tutto quel che precede detto sempre di quelle che furono le previsioni dei bolscevichi e di Lenin, oltre che sulla lotta per il potere nello Stato, anche sulle trasformazioni nelle forme economiche antiche che sarebbero seguite. Abbiamo lungo tutto questo cammino sempre sostenuto l'idea centrale che mentre nel metodo politico rivoluzionario le vedute erano assolutamente radicali, verso una inesorabile dittatura di classe ed un potere monopolizzato dal partito proletario comunista; invece le rivendicazioni economiche erano straordinariamente modeste, e per il più largo campo contenute nella trasformazione di istituti e forme feudalistiche in forme moderne analoghe a quelle dei paesi occidentali usciti da tempo dalle rivoluzioni liberali borghesi.
Con formula un poco esteriore ma al solito di buona utilità espositiva si può dire che passando dall'agone politico a quello economico passiamo da un Lenin estremista, che senza posa spinge il partito più avanti e a mete più complete, audaci e risolute, che spesso ad altri paion follie, ad un altro Lenin pieno di misura e moderazione, che raccomanda di andare adagio e non sostituire alla realtà sociale generose e verbali illusioni. La chiave di questo preteso enigma e sdoppiamento di «anime» in Lenin è quanto mai semplice e facile a cogliere: il socialismo in economia ha la sua base nello sviluppo dell'integrale moderno mondo capitalista ed imperialista, e non può svolgersi rapidamente che dopo il risultato «politico» di una possente dittatura internazionale della classe lavoratrice, del partito comunista mondiale.
In partenza nella mente di Lenin, come in quella di tutti i marxisti rivoluzionari di ogni paese, era ben fermo che in caso di mancata vittoria della classe operaia in occidente la via della rivoluzione di Russia era segnata: politicamente poteva andare oltre tutti i traguardi e travolgere senza esitare tutte le successive forme statali borghesi, scavalcando di un balzo poderoso i limiti di ogni costituzionalismo e di ogni democrazia parlamentare, applicando in tutta la sua estensione la dittatura di classe e di partito, gettando fuori dalle garanzie legali, sulle rovine di ogni menzogna di eguaglianza di diritto popolare, fino gli ultimi partiti borghesi e piccolo-borghesi, nessuno escluso.
Ove a questo appello grandioso non avesse il proletariato di Occidente risposto, di ben altra misura sarebbe stato il risultato della rivoluzione politica, quanto a forme sociali: i suoi passi, pure risultando grandiosi, si dovevano limitare allo sradicamento di forme antiche: feudali, patriarcali, semibarbare nell'immenso territorio, e ad una parallela azione nel contiguo Oriente, alla liquidazione di economie chiuse, locali, naturali, alla formazione di una circolazione economica interna nazionale, e di una partecipazione a quella internazionale più profonda di quella del tempo zarista col suo peculiare ma moderno imperialismo, all'ulteriore sviluppo delle forme produttive moderne nell'industria, nei trasporti. Come partiti politici e come gruppi sociali doveva la dittatura comunista fieramente punire i capitalisti e borghesi locali, e lavorare per prima scagliare contro quelli esteri i lavoratori rivoluzionari di Occidente, forgiando per essi armi teoriche e fisiche: ma i conti con la forma capitalista della grande produzione in Russia non si sarebbero potuti fare da pari a pari che dopo la Rivoluzione Europea; mentre difficilissima per il suo dialettico contenuto sarebbe stata la lotta contro l'interna piccola produzione e la meschina primitiva insidiosa macchina distributiva, lotta che era rovinoso non vincere, ma che sarebbe stata vinta alla maggior gloria della forma capitalista. Un uomo può essere grande fino al punto di capire questo, e Lenin lo fu: un uomo tanto grande da forzare questo passaggio non esiste: tanto meno potevano scoprirlo gli omuncoli che, liquidati i suoi migliori discepoli e compagni di lotta, presero il posto suo. E forse il senso dell'opera dell'uomo nella storia è di così ridotta portata che, se Lenin fosse vissuto, avrebbe parlato ed agito come costoro: morto, è rimasto nostro, e della Rivoluzione Mondiale.
5 - Programmi e decreti

Fino a questo punto abbiamo potuto discutere la prospettiva economica e sociale del partito di Lenin sulla base dei suoi programmi, delle tesi, delle decisioni dei congressi, di quelle proposte nelle adunate operaie, nei congressi dei Soviet. Da questo punto in poi abbiamo a disposizione doppio ordine di materiali: i programmi che il partito seguita ad elaborare, e i provvedimenti che esso fa attuare dagli organi dello Stato, le leggi, i decreti che vengono emessi. Si intende bene che tale materiale integra quello più importante dei dati effettivi dell'economia russa, dei mutamenti che nel suo quadro si verificano dopo la rivoluzione ed in rapporto alla politica del nuovo potere così come, anche prima, di somma importanza, a partire dagli studi degli stessi marxisti russi, sono stati i caratteri della società russa degli ultimi decenni e dei suoi dati di produzione, lavoro e consumo.
Ogni manifestazione del partito contiene inseparabili, ma in diversa misura, due elementi: quello descrittivo e scientifico su cui strettamente le possibilità immediate e concrete vanno innestate, e quello di agitazione che necessariamente deve andare più oltre, e porre maggiori rivendicazioni anche se di più lontano conseguimento. Quando dal programma di partito passiamo al decreto di Stato, nemmeno questo carattere di agitazione, che ha nelle fasi storiche attive e fertili primaria importanza, può totalmente sparire: in certi casi il rapporto può perfino invertirsi, ed essere meno radicale una tesi di economia teorica che internamente il partito, a sua guida, elabora, di un decreto che fa proclamare e che, oltre ad assicurare provvedimenti pratici, deve anche parlare alle masse, svegliarle e addestrarle a compiti di fasi ulteriori.
Senza di questo, mentre conserverebbe validità quanto dedurremo dagli effettivi accadimenti economici nei loro dati - quando se ne disponga - anche quantitativi, non sarebbe bene utilizzato tutto il materiale legislativo della nuova repubblica rivoluzionaria, non solo quando si tratta di dichiarazioni di principi e di diritti, ma anche quando si tratta di effettivi provvedimenti tecnici. E nulla sarebbe bene inteso se non si sapesse dare il giusto peso a questo elemento di agitazione rivoluzionaria, non diciamo solo legittimo ma necessario e inevitabile, inomissibile, tanto più che si parla al mondo intiero e al proletariato mondiale. Non si tratta di dare a questo dei modelli da imitare, ché anzi non devesi sottacere che le misure pratiche sono assolutamente spurie e ibride a petto di quelle che prenderebbe una repubblica proletaria tedesca o inglese. Ma si tratta che passo per passo, mentre si deve dire che la forma che si realizza è per avventura una forma del tutto borghese, si deve ricordare che se la si ammette e favorisce è solo per l'esigenza del cammino generale del mondo tutto, e quindi della Russia stessa in esso, verso l'integrale programma socialista, post-capitalista. Questo deve soprattutto applicarsi con vigorosa dialettica ai materiali della politica rivoluzionaria degli anni primi, degli anni con Lenin, nei quali la guerra guerreggiata col mondo capitalista era in piedi, sia perché i suoi emissari e agenti in Russia impugnavano tuttora le armi, sia perché i comunisti fuori di Russia miravano ancora al cuore del nemico, e potevano essere alla vigilia di avere nelle mani il potere totale, su macchine economiche della potenza ad esempio di quella germanica, ove i decreti del potere socialista, allo stesso modo, avrebbero preceduto di tempi di mezzo secolo quelli di Russia, e avrebbero dato al seriarsi di questi stessi un anticipo di un quarto di secolo almeno rispetto a quelli di una Russia isolata, preteso modello, berteggiato «paradiso».
Al tempo infame di oggi, della diplomazia, delle Nazioni Unite in cui un Lenin vivo mai sarebbe entrato, della coesistenza pacifica, della non aggressione, e perfino della emulazione internazionale, il linguaggio degli Stati è dai due punti cardinali lo stesso, scialbo, sordo e vile nella stessa misura, e anche la retorica che mai non manca a fianco di questi testi d'ufficio fa risuonare le stesse note, gli stessi ipocriti motivi; la forza di classe in atto o in potenza non è mai invocata, sì i valori popolari, progressivi, democratici, e del più scemo umanitarismo, lacrimato come dai coccodrilli da ambo i saggiatori sinistri di bombe acca.
6 - Piani della vigilia

Possiamo ora riferirci a due scritti di Lenin anteriori ad Ottobre e che fanno larga parte ad un programma economico. Essi precedono la fase della lotta armata per il potere ma sono interessanti perché descrivono la difficile situazione economica della Russia per effetto della guerra e delle rovine lasciate dal regime zarista, nonché dalla insipienza di quello borghese, e mostrano la possibilità di misure positive, che sono in fondo le stesse che i bolscevichi propugneranno dopo l'insurrezione vittoriosa e la salita al potere. Fino a questo punto Lenin tratteggia ancora la possibilità di una pacifica andata al potere dei Soviet, che erano ancora in maggioranza non bolscevichi: mentre solo dal principio di Ottobre 1917 egli porta tutta la sua opera sull'incitamento al partito a prendere senza indugio le armi per rovesciare, come ben sappiamo, il governo di Kerensky.
Il secondo scritto, datato 26-27 settembre / 9-10 ottobre 1917 ha per titolo: «I compiti della Rivoluzione», è più breve, ed ha pochi cenni economici, che sono assai più ampi nel precedente, intitolato: «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», datato 10-14 settembre / 23-27 settembre (121).
Da notare che, benché anche il secondo nel tempo, per ovvi motivi di agitazione e di polemica, parli dell'eventualità di una rivoluzione incruenta, è della stessa data il testo da noi largamente chiosato che dimostra come per i marxisti l'insurrezione è un'arte.
In «La catastrofe imminente», redatta da Lenin nel suo nascondiglio finlandese, si esamina dapprima la carestia dei generi di consumo e l'alta disoccupazione. Si dimostra che sono possibili misure utili per ridurle, ma la sola ragione per cui il governo «socialista» non le applica è il non recar danno ad interessi di proprietari terrieri e di capitalisti. Le misure che indica Lenin sono puramente: Controllo, vigilanza, censimento economico «da parte dello Stato». Egli condanna «l'inerzia totale» dello Stato rispetto alla vita economica: chiede in questa fase solo un indirizzo di «intervento» dello Stato centrale nell'economia. I provvedimenti pratici che non si vogliono applicare sono quelli senz'altro che tutti i governi borghesi belligeranti hanno applicato per fronteggiare pericoli analoghi nella crisi di guerra. Per le banche si propone la nazionalizzazione, o anche meno, la loro fusione in una Banca unica sotto il controllo dello Stato. Lenin spiega nettamente che tale misura non ha alcun contenuto socialista, perché consente solo allo Stato di sapere come va il flusso economico dei capitali e dei valori «senza togliere un kopeko a nessun proprietario» o depositante. Con questo controllo lo Stato può regolamentare la vita economica per evitare la crisi finale: America e Germania lo fanno egregiamente nell'interesse dei borghesi: i partiti russi della sedicente democrazia rivoluzionaria non osano né vorrebbero farlo nell'interesse delle classi povere.
Secondo punto: nazionalizzazione dei sindacati capitalisti. Si tratta dei trust, dei cartelli industriali, prodotti del moderno imperialismo ben noti in Russia anche sotto lo zar. Come altrove essi controllano produzione e consumo in date branche: zucchero, carbone, petrolio. Si tratta di sostituire a questi monopoli di gruppi privati il monopolio di Stato su detti rami. Tale misura non è ancora la statizzazione dell'azienda industriale (che nemmeno è socialismo) ma solo il trapasso dal gruppo privato allo Stato del meccanismo che è già in grado di regolare dal centro la produzione e il mercato di quelle merci: ciò farà lo Stato, imponendolo agli industriali, senza espropriarli con ciò dei capitali, né dei profitti.
Altro e terzo punto: abolizione del segreto commerciale. Senza di questo non è possibile alcun controllo di Stato e nessuna indagine sulle fughe di profitti e soprapprofitti. Altra misura odierna di tutti gli Stati borghesi con le varie polizie tributarie e indagini fiscali.
Quarto: la cartellizzazione forzata. Questo vuol dire che lo Stato, nelle branche dove non vi è monopolio e cartello che formi i prezzi di mercato, obbliga i padroni privati, tali restando, a sindacarsi tra loro. È citato l'esempio della Germania.
Tutte queste misure, minime e immediate, in un paese borghese con arretrati feudali, tendono ad affrettare il passaggio dal capitalismo di aziende autonome e concorrenziali a quello di monopoli di produzione e prezzi di imperio. Nei paesi borghesi odierni, e che si pretendono come l'Italia arretrati, di che si occupa l'imbecillità dei formali «leninisti»? Strillare perché siano aboliti i monopoli e titillati i «liberi» piccoli industriali e commercianti, e perfino i medi! Sunt lacrimae rerum!
Regolamentazione del consumo, ultimo punto. La Russia ha fin qui dal tempo zarista avuto come gli altri paesi in guerra la tessera del pane. Ma in tutto il campo del consumo i ricchi non ricevono dal governo alcun disturbo. Questo aveva in quel tempo elevato il prezzo di calmiere del grano e quindi del pane, il che vanamente gli stessi socialisti riformisti avevano deprecato: l'influenza di borghesi agrari e commercianti urbani sullo Stato lo aveva consentito al traditore Kerensky; qui l'economia di Lenin è spiccia: mettere il premier in prigione.
7 - Misure economiche immediate

Delineato il pericolo della bancarotta dello Stato e dell'inflazione monetaria, in questo schema di programma si propone null'altro che un'imposta sul reddito dei capitali fortemente progressiva, che esiste fin dallo zar ma diverrebbe non fittizia solo grazie ad un controllo proletario, al posto del controllo burocratico-reazionario proprio degli Stati esteri.
La parte polemica e politica di questo scritto già è stata da noi invocata. Non si tratta di proporre il socialismo, che non è possibile, ma di provare che i menscevichi e gli esserre non osano queste semplici misure pratiche perché temono di «marciare verso il socialismo».
Qui Lenin tratteggia quella dottrina, cui ricorrerà in tutta coerenza nell'opuscolo del 1921 «Sull'imposta in Natura» che dette luogo alla cosiddetta NEP e che dovrà formare nostro ampio argomento.
In guerra tutti gli Stati si sono evoluti verso un capitalismo monopolistico di Stato che i Kautsky chiamarono in Germania «socialismo di guerra». Non sarà altro, decenni dopo, il «socialismo» nazionale di Hitler. Questo apparato serve alla guerra e agli interessi del capitale. Ma questo stesso apparato, se lo Stato cadesse nelle mani della classe proletaria, servirebbe a lei.
Questi passi di Lenin mostrano come egli tracci il cammino delle forme successive, che la guerra imperialista aveva scatenato. Capitalismo privato. Capitalismo monopolista. Capitalismo monopolista di Stato. Qui siamo nell'«anticamera del socialismo», su quel «gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo» (122).
Perciò Lenin afferma che
«la guerra imperialista è la vigilia della rivoluzione socialista».
E aggiunge:
«non solo perché la guerra con i suoi orrori genera l'insurrezione proletaria - nessuna insurrezione creerà il socialismo se esso non è maturo economicamente» (123),
ma appunto per la detta ragione dell'avvento sistematico del monopolismo. Questo (orrore degli odierni cominformisti) costituisce un «passo» sulla «strada» del socialismo.
Lenin guarda ancora qui alla rivoluzione europea. Rimprovera ai Kerensky e soci di evitare quei passi perché non vogliono il socialismo, ma quanto alla Russia precisa:
«è impossibile avanzare senza marciare verso il socialismo, senza muovere dei passi verso il socialismo (passi determinati e condizionati dal livello della tecnica e della cultura: non si può «introdurre» la grande azienda meccanizzata nell'agricoltura a piccola economia contadina, come non la si potrebbe sopprimere nella produzione dello zucchero)».
Messa così chiaramente la tesi delle indispensabili condizioni teoriche per il socialismo, Lenin rinfaccia la paura di esso che hanno i «destri». Essi ne affrontano il problema in modo scolastico, dalla dottrina che hanno imparata a memoria e mal compresa, come un avvenire ignoto, lontano, oscuro.
«Ma il socialismo ci guarda da tutte le finestre del capitalismo moderno; e il socialismo si delinea direttamente e praticamente in ogni provvedimento importante che costituisca un passo avanti sulla base di questo stesso capitalismo moderno» (124).
La previsione di Lenin è sicura. Coi dati dell'economia russa, se tali fossero magari non solo in Russia ma nel mondo intiero, si possono solo aprire finestre nel capitalismo, da cui guarda il socialismo: costruire il socialismo no. Stalin e soci hanno costruito, invero, moltissime di queste finestre, nelle officine delle grandi città industriali, nelle moli delle centrali idroelettriche. Ma il socialismo non ci guarda affatto in Russia dalle finestre delle case colcosiane dei contadini: esso in Italia ed oggi ci volge addirittura il tergo dalle finestre delle case, fabbricate in carrozzoni capitalistici e già rotte dalle intemperie, erette dal caro ai cominformisti (anche se diffamato per ragioni di elettorale bottega) Ente della riforma fondiaria.
8 - Compiti della rivoluzione

Riferimmo del testo così intitolato la descrizione della Russia come un paese nella maggioranza immensa di piccola borghesia. Non adesso ci chiediamo se dopo quarant'anni questa maggioranza sia mutata. Lenin ne deduce che la causa della rivoluzione dipende dalle alternanze di questa classe: se essa va coi borghesi anziché con gli operai comunisti, la rivoluzione cadrà.
Per deciderla a rompere con la borghesia senza che una dittatura strettamente operaia ve la costringa con la forza (come di fatto in larga misura avvenne, perché gli alleati dei bolscevichi furono contadini del tutto proletari, e non piccoli borghesi), Lenin ancora una volta elenca il programma sociale della seconda rivoluzione, che ha il diritto al nome di socialista perché pacifica non fu, e perché quel programma è tutto tessuto di «passi» in quel tempo e paese audacissimi verso il socialismo, ma di misure di contenuto non ancora socialista, se considerate come punti di arrivo, in quanto già attuate in paesi governati dai capitalisti.
Primo punto: Il potere ai Soviet. Punto politico, totalmente socialista, dato che i Soviet erano oramai sul punto di volgere le spalle agli opportunisti e coalizionisti con la borghesia.
Secondo punto: La pace ai popoli. Altro punto politico socialista: proposta immediata di armistizio e pace generale senza annessioni. In caso di rifiuto, denunzia dell'alleanza con l'Intesa. Lenin risponde alla minaccia che questa privi la Russia di aiuto finanziario (che sostiene i proletari russi come la corda sostiene l'impiccato) e alla minaccia di invaderla.
Terzo punto: La terra ai lavoratori. Questo punto, cui abbiamo dedicato ripetute trattazioni, sarà ovviamente ancora svolto, e il suo contenuto non è socialista nel senso economico (Lenin dirà più oltre: ci rinfacciate di avere adottato il programma socialrivoluzionario), in quanto in effetti vi è una marcia indietro tra programma e decreti. Qui non si dice né spartizione né nazionalizzazione, ma abolizione della proprietà privata fondiaria e gestione dei comitati contadini. Accenno alla distribuzione del capitale-scorte ai contadini poveri. Non è socialismo distribuire, come anche oggi, terre e capitali.
Quarto punto: Lotta contro lo sfacelo economico coi postulati di cui ai precedenti paragrafi in materia industriale finanziaria e commerciale.
Per l'ultima volta nella storia Lenin considera l'ipotesi di una rivoluzione pacifica, con
«elezione pacifica dei deputati [non dice dell'assemblea costituente ma vuol dire dei Soviet] da parte del popolo, lotta pacifica dei partiti in seno al Soviet, verifica pratica del programma dei vari partiti, passaggio pacifico del potere da un partito all'altro [nel Soviet]» (125).
È, per le necessità in ultima istanza della dialettica delle forze in un momento di instabile equilibrio, della polemica e dell'agitazione, la presentazione coraggiosa della «faccia complementare» della realtà storica.
Ma (nello stesso giorno partiva la lettera al Comitato Centrale sul marxismo e l'insurrezione) viene subito dopo la faccia diretta della previsione, che leggiamo oggi nella sua indicibile forza.
«Se non si coglie questa occasione [leggete da dialettici: se non accettate questo ultimatum, che canaglie vostre pari non possono accettare] la più aspra guerra civile tra la borghesia ed il proletariato è inevitabile, come dimostra tutto il corso della rivoluzione, cominciando dal movimento del 20 aprile fino all'avventura di Kornilov. La catastrofe [economica] inevitabile affretterà la guerra civile. Come lo attestano tutti i dati e tutte le considerazioni accessibili alla mente umana, le guerra civile finirà con la completa vittoria della classe operaia, sostenuta dai contadini poveri, per quanto possa essere sanguinosa e crudele, PER LA REALIZZAZIONE DEL PROGRAMMA SUESPOSTO».
Programma economico basso basso, perché anche la volontà rivoluzionaria non può violare le condizioni determinate dallo sviluppo delle forze produttive.
Dinamica rivoluzionaria altissima, al più alto potenziale che abbia fino ad oggi visto la storia della società moderna.
Nessun timore nel movimento glorioso del bolscevismo ad andare incontro a questa fiammante contrapposizione: farsi portatore di un programma inferiore socialmente a quello che si potrebbe prendere a prestito da una repubblica borghese progredita ed avanzata; svolgere una politica di classe tale da far tremare sulle basi tutto il mondo capitalista.
Allora, ed oggi e domani non meno di allora, una è la soluzione di questa durissima antitesi: lo scatenamento della guerra di classe nel seno dei più potenti paesi del capitalismo, la dittatura proletaria in Europa e nel mondo bianco, ed enormemente a questa più vicina la doppia rivoluzione dei popoli colorati, la cui teoria non può essere costruita con altro materiale che con quello che ci dà la chiave marxista dell'enigma russo: doppia rivoluzione politica borghese e socialista - società economica post-rivoluzionaria soltanto capitalista, e non socialista. Passo gigante che ha fatto la storia sulla via del socialismo mondiale.
Notes:
[prev.] [content] [end]
120. Sulla critica di queste elucubrazioni, si vedano in particolare i tre «Fili del tempo» intitolati «La batracomiomachia», «Gracidamento della prassi», «Danza dei fantocci», e apparsi nei nr. 10-11-12 del 1953 de «Il programma comunista», oggi raccolti in «Classe, partito, stato nella teoria marxista», Edizioni Il programma comunista, Milano 1972. [back]
121. Rispettivamente in Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 48-57, e XXV, pagg. 307-347. [back]
122. Lenin, «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», in «Opere», XXV, pag. 341. [back]
123. Lenin, «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», in «Opere», XXV, pag. 341. [back]
124. Lenin, «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», in «Opere», XXV, pag. 342. [back]
125. «I compiti della rivoluzione», cit., in «Opere», XXVI, pag. 56, come il brano successivo. [back]
SOURCE: «IL PROGRAMMA COMUNISTA», N. 4, FEBBRAIO 1956

STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI (XXVI)


[Parte terza]

Content:
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (XXVI)
Parte terza
La grave vicenda storica fra la morte di Lenin e noi
1 [102] - I tempi del corso economico
2 [103] - Limiti della gestione economica
3 [104] - Attendere significa vivere
4 [105] - Direzione a zig-zag?
5 [106] - La salvezza dottrinale
6 [107] - Formule di Trotsky
7 [108] - Dal livello del minimo vitale
8 [109] - Discussioni economiche nel partito
9 [110] - Tre vie per la struttura russa
10 [111] - La soluzione di Bucharin
11 [112] - Ricorso marxista alla dialettica
12 [113] - «Arricchitevi»
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Notes
Source

La grave vicenda storica fra la morte di Lenin e noi
1 - I tempi del corso economico

(243) La grave vicenda storica che si inserisce tra la morte di Lenin e noi, in ragione delle vibranti emozioni inflitte all'intera umanità nel tempo di un'intera generazione, è di difficile esposizione, in quanto si affollano per darne i capisaldi troppi nomi famosi, oggetto di fanatica lode ed infamia da varie sponde, e perfino, negli ultimi episodi che maggiormente hanno commosso il mondo or è poco, di alternata, dalla stessa banda, esaltazione e - altra parola non va usata - diffamazione.
Non sarà possibile tacere i nomi degli uomini caduti e vincenti, non fosse che al fine di venire rettamente intesi dai tanti che ricordano quel tempo, da una delle più possenti organizzazioni della storia umana presentato ad arte in modo distorto; ma bisogna malgrado ciò pervenire a dare, almeno negli schemi sostanziali, il corso dei rapporti di produzione reali e il gioco delle classi sociali e delle forze economiche, sollevandosi con ogni sforzo dall'abuso falsificatore fatto per tanti e tanti anni delle classiche formule della nostra dottrina.
Le fasi della trasformazione sociale si possono dividere in periodi, che sono delimitati tra loro con un relativo accordo dalle opposte sponde; come nel tristo «Breve Corso» della storia del partito ufficiale, e nelle sempre vigorose e leali, anche per chi non possa tutte accettarle in dottrina, analisi del grandissimo Trotsky. Essendo queste storiche tappe vive nella memoria di tutti, la loro trama sarà utile allo svisceramento del tremendo problema.
Le due prime vanno dall'Ottobre alla morte di Lenin e sono state in quanto precede esposte e trattate. Altre si pongono tra il 1924 e la data di quelle due nemicissime tra loro fonti, che all'incirca giungono alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1937. Le altre sono di ieri e di oggi.
I. 1918-1920. Guerra civile. «Comunismo di guerra».
II. 1921-1925. Ricostituzione dell'economia interna. NEP.
III. 1926-1929. Industrializzazione. Offensiva contro i kulak. Lancio del primo piano quinquennale.
IV. 1930-1934. Sviluppo della forma «colcos» nell'agricoltura (questo processo viene definito della collettivizzazione agricola: in miglior linguaggio marxista il colcos va definito forma mista tra la produzione agraria particellare e quella cooperativa).
V. 1935-1938. Affermata «edificazione socialista» nella sola Russia. (In termine adeguato: crescita imponente del capitalismo statale nell'industria e del semi-capitalismo statale-cooperativo in agricoltura).
VI. 1939-1945. Guerra mondiale e alleanze con Stati capitalisti.
VII. 1946-1955. Lotta per il dominio del mondo e «guerra fredda» con gli alleati di Occidente.
1955... Coesistenza pacifica con l'Occidente ed emulazione economica.
Noi saremmo a proporre a tutto il grande periodo 1934-1955, ed oltre, la denominazione di periodo dell'incremento quantitativo della massa della produzione, e se fosse lecito: «quantitativismo produttivo», essendo questo un carattere costante economico, malgrado i mutamenti politici: la serie ha soprattutto rapporto alle forme economiche.
2 - Limiti della gestione economica

Tutto quanto in seguito va trattato, deve esserlo fuori del presupposto che si trattasse degli svolti di una «libera politica economica» dello Stato e del partito, che nei primi due periodi avevano consolidato il proprio potere, e che potessero, sotto il suggerimento di questa o quella «tendenza» rispecchiante diversi programmi e possibilità, prendere una o un'altra rotta nel cammino storico della società russa. Sono invece le opposte concezioni venute in lotta (tenuto anche conto della natura, sospetta quasi sempre, del materiale a noi trasmesso) che dovranno essere spiegate con la necessaria influenza del modificarsi dei rapporti economici.
Malgrado la nostra fermissima tesi teoretica, essenziale per i marxisti, che anche la persona dei meglio dotati capi della lotta non può essere considerata, nella sua opera di indirizzo teorico ed organizzativo dell'azione, come causa motrice degli accadimenti, sosteniamo di conservare il diritto ad una constatazione. Il materiale per una decisa coordinazione dei dati che portano in luce le forze del sottosuolo sociale, con la critica della contemporanea valutazione, o le contemporanee valutazioni, dei compiti dello Stato e del partito, in ordine e coerenza ininterrotta con le posizioni generali della dottrina, della scuola russa e internazionale marxista, che è unica, dopo la fine degli apporti dovuti a Lenin viene in gran parte meno, e si tratta di collegare frammenti che si reperiscono discontinui e contraddittori.
Tutti gli uomini che trattano i quesiti sul compito del partito non cessano di richiamarsi a Lenin, all'insegnamento di lui, con risultati difformi, ma non si rinverrà più la linea indiscutibile di una chiara lettura dei fatti e la dimostrazione senza un minimo esitare che essi si inquadrano nella dottrina e nelle tradizioni dell'indirizzo di lotta del partito. Scartati i falsificatori stipendiati all'uopo, ben poco resta per trovare non diciamo giudizi decisivi, ma sicuri elementi, e perfino statistici. Penetrando in quest'ombra, pochi sfuggono alla tentazione di rimpiangere che «non si sia lasciato liberamente discutere», e questo primo passo avvia a scivolare, all'indietro, nella catena delle concezioni antimarxiste e borghesi. Capo storico che si commisura con Lenin, e marxista degno di lui, nemmeno Trotsky si libera totalmente da tutte le insidie; anche ai grandissimi condottieri battuti, dopo avere attinto così luminose vittorie, è pressoché impossibile raggiungere il rigore scientifico nel fare la storia della loro infausta personale rovina: tanto più impossibile a chi nella misura di Trotsky ebbe il temperamento del gladiatore che non si sottrae a sentire lo straripamento della propria volontà nel cedere del nemico alle forze sovrapersonali ed arbitrali della storia.
Fino al più grande dibattito che ci resta integro, quello del dicembre 1926 di cui abbiamo molte volte parlato, non sembra esservi dissenso sulla unicità della strada che si era trattato di seguire, e le riluttanze ideologiche, che non mancarono certo, trovano un limite irrefutabile nelle successive sistemazioni, teoretiche e realistiche a un tempo, di Lenin.
Il dibattito del 1926 fermò storicamente il fatto che né Lenin, né altri, lui vivente, e perfino prima del 1926, aveva accantonato la tesi che il punto dell'avvenire a cui ogni altro traguardo andava subordinato era il dilagare della rivoluzione e della dittatura comunista ben oltre le frontiere della Russia, e malgrado gli insuccessi a catena scontati dai tentativi della classe operaia di avanguardia in pressoché tutti i partiti di Europa.
La politica di amministrazione della Russia bastava fosse quella di una gestione precaria, intercalare; in quanto era caposaldo delle prospettive del comunismo mondiale che l'economia russa avrebbe mosso verso il socialismo non solo al fianco, ma indubbiamente al seguito di quella di gran parte d'Europa.
La pratica economica del partito aveva una semplice consegna: attendere sulla rocca del conquistato potere; non aveva quella: trasformare; e tanto meno la stolta, che dopo prevalse: costruire.
3 - Attendere significa vivere

Appare chiaro che attendere su posizione conquistata, raggiunta, vuol dire anzitutto non recederne, ove quella sia attaccata e minacciata. Il senso della prima fase del post-Ottobre è semplice: difesa del potere rivoluzionario, contro le tremende ondate degli avversari di classe interni e stranieri. Ma anche per difendersi e resistere, obiettivo militare e politico estremo, occorre vivere, occorrono vettovaglie, munizioni da bocca e da fuoco. L'economia si riduce a questo: prendere al di fuori di ogni scambio e di ogni diritto tutto quello che fisicamente si trova, e soprattutto se lo si toglie al nemico; salvare la vita fisiologica della popolazione e dell'esercito, della città e della campagna.
Dato che la guerra internazionale, e poi quella civile, avevano ridotto le risorse del paese russo ad una bassa frazione di quello che aveva attinto sotto lo stesso zarismo e prima della guerra, la questione di trarre maggiore resa dalle forze produttive, togliendo con la forza ostacoli a loro pressioni, non aveva allora ed ancora senso alcuno. Consumare quello che si trovava, e produrre come si poteva, era la sola formula di «politica economica».
Poiché tra le risorse produttive fisicamente constatabili ed inventariabili la prima che non si può creare sillogizzando è la tradizione della capacità produttiva dei gruppi umani, era in tanto dura situazione già un successo realizzare un minimo prodotto per il ridotto consumo anche nelle forme primordiali adeguate allo stadio raggiunto dalla terra, dall'attrezzatura utensiliera, e dall'allenamento scarso delle braccia umane; e delle menti scarsissimo.
Non si può rimproverare a comunisti, la cui dottrina è presente solo in quanto ha potuto germinare sui dati e per le influenze di società ben più sviluppate e complesse, di aver desiderato il miracolo di trarre salute dall'immediata applicazione di forme, di «dispositivi» della società il cui avvento è da noi dimostrato scientificamente possibile. Lo stesso compito di proiettare la rivoluzione nella vecchia, saggia e grassa Europa, in ben altro «terreno di coltura», esige che si possa anche come simbolo, anche come insegna di combattimento, dire alle masse aspettanti che i frutti della rivoluzione si sono cominciati a raccogliere, pure invitando alla seminagione in grande stile i fratelli di oltre frontiera. Anche quelli di noi che dalla primissima ora deridemmo il metodo della presentazione del «modello» di comunismo, metodo legato alle vecchie utopie disintegrate dalla critica geniale di Marx (e lo era al non immaginato folle atteggiamento di oggi del comunismo fabbricato «dalle mani dei comunisti» e messo in un'assurda vetrina, anche noi godemmo a vedere per le monche strade di Pietrogrado e di Mosca, nel generale squallore e fra le tracce delle battaglie, l'impressione anche simbolica che le forme borghesi proprietarie, pecuniarie, avessero cominciato a dissolversi.
Tuttavia, sebbene l'abbiamo largamente citata, troviamo che la dimostrazione di Trotsky sul «comunismo militare» e l'economia da città assediata non sta alla stessa altezza di quella di Lenin, quando si tratta per entrambi di spiegare, come abbiamo riportato, che la NEP con la sua apertura delle dighe alle forme commerciali, ossia capitaliste, non conteneva affatto una decisione diversa e una rinunzia al cammino verso il socialismo, internazionale, perché solo internazionale lo conosciamo.
4 - Direzione a zig-zag?

Trotsky vuole arrivare alla conclusione che le consegne del centro statale e di partito, sotto la guida dello stesso gruppo, quello stalinista, si susseguirono sbandando e contraddicendosi. Ciò è vero, ma non basta a stabilire che cambiando il gruppo o il suo capo, o anche chiedendone designazione a quelle fonti che si denominano massa o base, ma con troppo sommaria visione dell'integrale quadro, si sarebbe andati non a zig-zag, ma diritti.
Anche Lenin, nel difendere la NEP, parla di ritirata, disposta per evitarne una peggiore, e per poter più sicuramente ripigliare il cammino. Ma questo concetto preliminare, didattico, e polemico nei confronti di chi poco aveva capito della vivente realtà e della solidamente stabilita dottrina, ancora non è quello del zig-zag. Non si tratta di un cammino che muta ad ogni tratto la sua direzione, imponendo svolte, angoli, alla rotta, ma di uno che rimane rettilineo, muta solo la sua velocità; senza mutar direzione. Nemmeno se rinculasse, muta la «direzione», bensì solo il senso del suo moto, e questo può farsi per porre il piede su uno scalino, la mano su un anello, che consentano di ripartire avanti, e meglio, senza avere smarrita la strada, mutato il traguardo finale.
La fredda metafora geometrica prende carne e luce dalla trattazione sistematica di Lenin, che egli ha la genialità di poggiare su una analisi non fabbricata nel 1921, dopo la pretesa delusione sulla velocità di trasformazione economica che si poteva tenere, ma svolta subito dopo la rivoluzione nel 1918, e strettamente coerente - reputiamo averlo provato - a tutta la scienza della particolare struttura sociale russa, che in tutta la sua vita aveva elaborato.
Trotsky sembra tenere a provare che il partito, tra la prima e la seconda fase, in effetti accostò, virò di bordo. Nella «Rivoluzione Tradita», scritta nel 1936, egli così si esprime:
«Il comunismo di guerra era in fondo una regolamentazione del consumo in una fortezza assediata. Bisogna tuttavia riconoscere che le primitive intenzioni del Governo dei Soviet furono più larghe. Esso sperò e tentò di ricavare da questa regolamentazione un'economia controllata sul piano sia del consumo che della produzione. In altri termini pensò di passare a poco a poco, senza modificazioni del sistema, dal «comunismo di guerra» al vero comunismo».
A prova di questa grandemente esagerata asserzione Trotsky cita il programma adottato dal partito bolscevico nel 1919, che diceva:
«nel campo della distribuzione, il potere dei Soviet persegue inflessibilmente la sostituzione del commercio con una distribuzione dei prodotti organizzata su scala nazionale con un piano di insieme» (244).
Se il lettore ritorna a quanto abbiamo ripetutamente detto sul congresso del 1919, ed anzi appunto sul programma, e sulle rettifiche del tutto di principio che Lenin vi apportò a correzione di Bucharin, potrà verificare che le tesi economiche sono proprio le stesse che verranno a giustificare la linea della NEP, e Lenin esprime le stesse idee del 1918, cui poi si ricollegherà nel 1921. Non l'economia del capitalismo di tipo monopolista, ma addirittura quella del pieno capitalismo privato (indubbiamente mercantile) sono per la Russia non fasi sorpassate, ma fasi che è augurabile raggiungere!
Lenin redasse ed approvò quel programma: e perché non doveva ivi dirsi che il partito persegue la soppressione del commercio? La posizione dialettica di Lenin era che anche incitando il sorgere e il gonfiarsi di un commercio libero, si persegue in realtà il migliore cammino al socialismo.
5 - La salvezza dottrinale

Quel passaggio era indispensabile perché nel programma, che vale per molti anni e congressi, è vitale la salvezza delle tesi generali; ed esso è la pietra di paragone per i richiami alla dottrina, che Lenin ritiene necessari ad ogni svolta del cammino. Quanto sarebbe stato utile il ricordare ad ogni passo che non sarà mai consentito parlare di socialismo se non si è raggiunta la fase in cui non si ha più «commercio», ma «distribuzione dei prodotti secondo un piano generale» ossia senza calcolo di equivalenza di due prodotti a valori messi di faccia, senza forma mercantile!
Sarebbe bastato questo ad impedire la peste dei futuri anni, consistente nel chiamare socialismo una distribuzione borghese!
Non meno salutare sarebbe stato l'intendere che è ammissibile dover camminare lunghi e lunghi anni sopportando la forma commerciale di distribuzione, e magari, come fu con la NEP, suscitandola ove era ancora feconda rispetto alla pesante eredità del passato sociale; ma l'essenziale era non scambiare questa tappa per una tappa socialista.
Il programma dice che il partito persegue quell'obiettivo, ma non dice che lo si possa attingere nella sola Russia, e senza la rivoluzione occidentale, che in paesi come Germania e Inghilterra potrebbe attuare rapidamente per una vasta parte della produzione una distribuzione sociale a piano unitario, solo che la classe operaia avesse il potere. Nei due casi è la stessa cosa che si persegue inflessibilmente, ma con diversissima velocità di avanzata.
L'essenziale è inchiodare la verità: dove è commercio ivi non è forma socialista, ma capitalista. La tesi programmatica di Lenin in quel passo è, sempre, quella che in Russia dovremo gestire capitalismo, ma, ogni volta che lo avremo di faccia e tra mano, lo chiameremo ad altissima voce come tale.
Trotsky concorda in tutto con la teoria della società russa nella fase della NEP e con la ineluttabilità della sua adozione, pena il decadimento dell'economia sotto il livello obbligatorio del programma economico: campare.
Egli ne dà la netta definizione in questi punti, che collimano con quelli dedotti dai testi di Lenin, e sono forse più netti per evitare l'equivoco dottrinale tra industria statizzata dal potere socialista ed economia industriale socialista. La prima è nelle mani di uno Stato che «persegue il socialismo», ma i rapporti di produzione nel suo meccanismo sono integralmente capitalistici.
6 - Formule di Trotsky

Il reale fenomeno economico sociale della NEP è così caratterizzato dalla magistrale e limpida presentazione di Trotsky, fotografia dei reali rapporti di produzione nella fase 1921-25.
L'esistenza nel paese di milioni di aziende contadine isolate creò per Lenin la necessità di ristabilire il mercato. Solo il mercato crea una saldatura tra industria ed agricoltura. La formula è molto semplice: l'industria deve fornire alla campagna le merci necessarie a prezzi tali che lo Stato possa rinunziare alla requisizione dei prodotti dell'agricoltura.
Trotsky aggiunge duramente, alla Lenin (e qui degnamente integra Lenin), che non si tratta solo di una questione di forme di produzione e distribuzione agrarie, ma anche di una diversa concezione della gestione industriale.
«La stessa industria, benché socializzata, aveva bisogno dei metodi di calcolo monetario elaborati dal capitalismo. Il piano non potrebbe basarsi sui semplici dati dell'intelligenza. [Ciò vuol dire: con una contabilità effettivamente socialista, ossia con progetti relativi a quantità fisiche di oggetti e forze materiali, non affette da cifre di equivalenti monetari: l'idea è data da un progetto di costruzioni accompagnato da un previsto «fabbisogno di materiali» e da un prospetto di numero di giornate di lavoro di una maestranza organizzata, senza «preventivo di spesa», ma con legame al piano nazionale della forza lavoro e della produzione e disponibilità di beni]. Il gioco dell'offerta e della domanda resta per il piano, e per un lungo periodo ancora, la base materiale indispensabile e il correttivo salvatore» (245).
Preferiamo la formula della base materiale a quella meno felice di un semplice «correttivo». Il rapporto è sostanziale: non si può, e lo dicemmo nel 1922 a Trotsky, adottare la contabilità capitalistica, se non riconoscendo il fatto che si resta nel campo del modo di produzione proprio del capitalismo: salario in moneta ai lavoratori secondo il tempo di lavoro, bilancio di entrate e spese, margine di guadagno aziendale.
Ciò chiarito, va solo detto che anche oggi 1956 siamo a quel tipo di esercizio dell'industria, del tutto capitalistico.
Vedremo che la formula di Trotsky è meno decisa: nega la staliniana tesi che si abbia industria socialista, ma parla di una forma «di transizione dal capitalismo al socialismo». Storicamente tutto è transizione, anche la statizzazione sovietica; economicamente sono capitalisti il metodo di calcolo e la sostanza del rapporto produttivo.
7 - Dal livello del minimo vitale

Si può enunciare in generale il teorema che un'economia che gravemente declina verso la miseria, la scarsa produzione e lo scarso consumo non può essere il teatro dell'apparire di un nuovo modo di produzione. Alla base della comune dimostrazione di Lenin stava il fatto della tremenda depressione economica seguita alle ferite della guerra imperialista e della guerra civile. Prima di avviarsi alla genesi di nuove strutture, bisognava ridestare le antiche risalendo, sotto il loro stesso regime qualitativo, a minimi quantitativi accettabili e comparabili a quelli del passato.
Più volte abbiamo dato cifre al riguardo. Nel 1921 si era nel fondo dell'abisso. La produzione industriale, nell'apprezzamento di Trotsky, era caduta al quinto di quella di anteguerra. La produzione di acciaio era caduta da 4,2 milioni di tonnellate ad appena 183.000 (la ventitreesima parte!). Il raccolto dei cereali era caduto dagli 801 milioni di quintali di anteguerra ai 503 del 1922.
Anche in totale accordo con Lenin, Trotsky dimostra che la risalita fu possibile solo grazie alle misure della NEP: mercato libero, gestione mercantile delle imprese, e infine ricostituzione di uno stabile sistema monetario, legato al rublo oro. Nel periodo del comunismo di guerra si era guardato con ottimismo alla spaventosa svalutazione del rublo. Non era un errore teorico, ma piuttosto un atteggiamento agitatorio adeguato all'epoca della rivoluzione mondiale, che si calcolava prossima.
Questa è soprattutto la tesi di Trotsky. Egli dice che se la rivoluzione avesse trionfato in Germania, sia lo sviluppo russo che quello tedesco avrebbero preso a procedere a passi da gigante. Aggiunge però:
«Si può tuttavia dire con tutta certezza, che anche in questa felice ipotesi si sarebbe dovuto rinunziare alla ripartizione dei prodotti da parte dello Stato, e ritornare ai metodi commerciali» (246).
Leggiamo questo passo nel senso che l'economia russa avrebbe dovuto parimenti battere la via della NEP riguardo ai piccoli contadini da ammettere al commercio, ma invece la Germania avrebbe potuto cominciare a pianificare la distribuzione, e prima di tutto nel senso di passare in Russia grossi quantitativi di prodotti industriali di consumo e strumentali, anche senza alcuna contropartita, per decisione dell'Internazionale degli Stati comunisti (247).
Neanche infatti con questa potente iniezione di prodotti industriali poteva in un volgere breve superarsi il fatto che le minime aziende di campagna erano, per effetto della rivoluzione di Ottobre, passate da 16 a 25 milioni in tutta la Russia.
Questa struttura produttiva poteva solo respirare in ambiente mercantile, e per effetto della NEP si realizzò il movimento dei prodotti agricoli verso le città, ed industriali verso le campagne. Nel 1922 e 1923 la produzione dell'industria raddoppiò: come sappiamo, nel 1926 raggiungerà il livello antebellico, ossia sarà quintupla del 1921. Tuttavia molto più modesto fu l'incremento della produzione rurale.
La causa era semplice: prelevando dalle campagne troppo grano senza poter dare al momento larga fornitura di oggetti manifatturati, si potevano nelle città fondare fabbriche nuove e mobilitare altre maestranze, ma il contadino, scontento, preferiva seminare poco e consumare il suo prodotto direttamente, tornando per i bisogni essenziali non alimentari alla primordiale forma dell'artigianato domestico.
8 - Discussioni economiche nel partito

Il difficilissimo problema determinò nel partito bolscevico vivaci discussioni circa la spiegazione dei fatti economici e la linea da adottare. Nella primavera del 1923 (al XII congresso, il primo da cui Lenin era assente) Trotsky svolse la sua tesi sulle «forbici economiche». I prezzi dei prodotti dell'industria russa presentavano una continua ascesa, mentre invece quelli dei prodotti agricoli discendevano.
A un certo punto le due curve si erano incrociate, ma seguitando a salire il ramo dei prezzi industriali, e a scendere quello agrario, la forbice si apriva sempre più ed esprimeva il conflitto tra i due settori della società.
Qui giova prendere da Trotsky la spiegazione veritiera dello schieramento delle valutazioni e delle proposte in materia economica.
Tutti erano d'accordo che per dare impulso alla produzione agraria era necessario «chiudere le forbici». Vedremo ora quali erano le tre vie proposte per arrivarvi.
Questo scopo comune, vogliamo premettere, si pone sulla via al lontano socialismo ed è imposto dalla stretta necessità di contenuto vitale, ma non e ancora nemmeno uno «scopo socialista». È uno scopo squisitamente capitalista e borghese. Nel marxismo classico uno degli aspetti distintivi dell'economia borghese, nella sua irrompente apparizione rivoluzionaria che squarciava la limitatezza e la molecolarità strutturale del tempo feudale, è la diminuzione brusca e progressiva del costo dei manufatti, effetto della lavorazione associata e della divisione tecnica del lavoro. Per converso, ed in rispondenza alla teoria dei fattori della produzione agraria, il prezzo dei viveri non solo non segue un moto analogo, ma sale decisamente, dovendo la popolazione contadina allargare la sua cerchia di bisogni e di consumi ai nuovi «articoli» che l'ingranaggio mercantile rovescia fino a lei; e non essendovi radicali diminuzioni dei costi di produzione, che dove esistono si convertono non in minor valore di scambio, ma in rendita differenziale a favore dei proprietari borghesi, calcolandosi i prezzi sui costi del «peggior terreno».
La deterministica esigenza inserita nel diagramma di Trotsky significa che la rivoluzione russa, nel corso dei modi di produzione, batte la fiacca anche in quanto rivoluzione capitalista suscitatrice della febbre ardente del mercato interno. Chiudere la forbice vuol dire balzare in alto lungo gli scalini di Lenin: produzione patriarcale, piccola produzione contadina, capitalismo privato.
Il passo al capitalismo di Stato, quarta fase della struttura sociale, lo si può azzardare solo nell'industria, con la statizzazione e la confisca delle fabbriche, prima delle importanti e poi delle medie e piccole, con la banca di Stato e il monopolio del commercio estero - precipitosamente sceso in quegli anni di crisi da 2900 a 30 milioni di rubli.
Quindi i problemi concreti, leniniani, prima che la bestemmia della costruzione del socialismo venisse a tutto confondere, erano al 1923 due: battere nell'industria il capitalismo privato, battere nelle campagne la minuta produzione. Questi due traguardi si chiamarono: industrializzazione e collettivizzazione dell'agricoltura.
Dinanzi a questi problemi si formarono tre gruppi: sinistra, destra e centro. Noi ne ricostruiamo la genesi e funzione sulla base di categorie economiche e modifiche ai rapporti di produzione, e sulla base delle due visioni della politica comunista mondiale: anticipare la rivoluzione politica europea segnando il passo nella trasformazione della struttura sociale russa - ovvero disinteressarsi della rivoluzione internazionale e darsi alla «edificazione socialista» nella sola Russia, la demente eresia che rovinò tutto.
I filistei di tutti i partiti da allora ad oggi ridussero tutto alla questione esosa della «successione di Lenin», come oggi riducono la crisi che traversa la Russia alla questione della «successione di Stalin».
9 - Tre vie per la struttura russa

Se apriamo le pagine (e sono queste le più ignobili, di cui hanno perfino arrossito vecchi arnesi capaci di ingoiare rospi del volume di elefanti, al XX congresso) del «Breve Corso», la soluzione sarà lineare: al centro i continuatori di Lenin e i fautori dello sviluppo della Russia verso tutti i trionfi: un nuovo sistema economico miracoloso all'interno, le più grandi vittorie nazionali all'estero, col conio di un'altra cretinesca consegna: la Patria del socialismo! Nelle opposizioni di sinistra e di destra, puri e semplici agenti prezzolati delle borghesie straniere, che erano tali dal 1917, e che nell'industria sostengono il sabotaggio e la smobilitazione che faciliti la futura aggressione dall'esterno, nell'agricoltura difendono i contadini ricchi, i kulak, che formando la base della nuova borghesia russa faranno risorgere il capitalismo, e prepareranno la controrivoluzione! Secondo un tale riferimento dei fatti, Trotsky voleva chiudere le maggiori officine dell'industria pesante e bellica, Bucharin abolire il monopolio del commercio estero, Zinoviev e i suoi mantenere alla Russia il carattere agrario e limitare all'industria tessile tradizionale la zona di Mosca e così via.
La storia scritta sotto la mano di ferro stalinista incolpa tutti gli avversari, che caddero nella lotta e nelle terribili «purghe», di opposizione retroattiva, affasciandoli fin dai primi anni, imbrogliando il mazzo delle carte, colpendo la memoria di Bucharin fino a tacere in malafede che nel dibattito del 1926 e nella campagna per stritolare Trotsky, Zinoviev e Kamenev fu Bucharin il paladino Orlando di Carlo Magno Stalin.
Messo questo pattume da parte, ricostruiamo i termini della contesa sulla testimonianza di Trotsky, ponendoli in relazione alla marxista dottrina di Lenin, sulla struttura sociale russa e le sue possibilità di sviluppo.
Trotsky indica se stesso fino al 1923 come il dirigente l'opposizione di sinistra al centro staliniano. La destra, diretta da Rykov, Tomski e Bucharin, si confondeva col centro di Stalin e Molotov, mentre Zinoviev e Kamenev (come abbiamo più volte narrato, essi nel 1924 condussero la lotta contro Trotsky che non comparve al V congresso mondiale) nel 1926 si ricollegarono all'opposizione di sinistra del 1923.
Ma quali, al di sopra delle persone e delle traiettorie percorse dai nomi, che furono intricate e sconcertanti, in episodi che a distanza di anni si incrociano e sovrappongono confondendo ogni prospettiva, erano le diverse direttive?
La sinistra con Trotsky e Zinoviev-Kamenev, fin dalla XIV conferenza e XIV congresso del partito (1925) e dalla famosa XV conferenza del novembre 1926 che precedette l'Allargato dell'Internazionale, nel dicembre 1926, teatro della grande classica contesa sulla «edificazione isolata del socialismo», sostenne, al rovescio delle menzogne ufficiali: a) l'industrializzazione, e la proposta, avanzata da Trotsky fin dal 1923, di un piano quinquennale di sviluppo economico; b) la collettivizzazione della produzione agricola, sviluppando contro la piccola produzione e contro i kulak le aziende collettive di Stato.
La destra sostenne idee opposte alla lotta contro i kulak, e la remora dell'industrializzazione, ma quello che bisogna intendere è che nel 1925 Stalin, e quella che Trotsky chiama la frazione dirigente, sposarono il programma della destra, accettarono la politica di orientamento verso il kulak. Stalin si poggiò in tutto sulle tesi di destra nel lottare contro i «super-industrializzatori» dell'opposizione di sinistra (Trotsky, e poi Zinoviev e Kamenev).
Stalin nel 1925 accede perfino all'idea della snazionalizzazione della terra, assegnandola per dieci anni e anche più ai contadini in proprietà anche giuridica (ciò vuol dire libertà di concentrare la terra con compravendite). Nel 1925 con apposite leggi si ammise, in deroga alla costituzione, l'impiego della manodopera salariata nelle campagne e l'affitto (che vuol dire libera formazione di capitale nella campagna).
«La politica del governo, la cui parola d'ordine era: verso le campagne, si orientava in realtà verso i kulak».
Fu mentre Bucharin era il teorico ufficiale della frazione dirigente che egli lanciò, in nome di Stalin e del governo, la famosa parola d'ordine ai contadini: Arricchitevi! Ed oggi il «Breve Corso» sta ad accusarlo di tradimento, per avere sostenuto la fine della lotta di classe tra contadino povero e kulak, e il pacifico assorbimento del contadino ricco nel socialismo! Erano prima del 1926 le idee ufficiali di Stalin, combattute fieramente dall'opposizione di sinistra. Circa i piani di industrializzazione, essi furono da Stalin allora derisi. Stalin nell'aprile del 1927 affermò che la costruzione della grande centrale elettrica del Dniepr sarebbe stata come l'acquisto di un grammofono invece di una vacca per il mugico! (248).
10 - La soluzione di Bucharin

Quando più oltre fu chiesto a Stalin se fosse peggiore la sinistra o la destra egli rispose che erano peggiori tutte e due e manifestò il chiaro programma di stritolarle. Intanto la tendenza «Stalin» quale era? Era quella di non avere tendenza, di non rispettare principi, di amministrare lo Stato per lo Stato, governare la Russia per la Russia, sostituire una posizione nazionale e poi imperiale alla posizione di classe ed internazionale: anche ammesso che in un primo tempo non lo sapessero né lui né i suoi seguaci.
Il fatto che appare strano a chi narra la storia «secondo le persone» è che dal 1928 la destra e la sinistra si avvicinano nell'ingaggiare una lotta impari contro la «direzione». È strano pensando che la sinistra, ingiuriando Stalin (dieci volte meno del necessario) aveva ingiuriato in lui la destra, cui egli, fulcro della politica, attinse come lo vedremo attingere poi a sinistra alle dottrine e tesi della sinistra. Non è strano se si fa storia con metodo non da Tecoppa, ma alla scuola di Marx e di Lenin. Ciò non è un dato del «carattere camorristico» di Giuseppe Stalin, ma un'altra prova che la rivoluzione si «raccorcia» storicamente da doppia rivoluzione a rivoluzione solo borghese: in questa i capi si tagliano a vicenda le teste per rubarsi idee e cervelli.
Trotsky stesso, legato dalle tradizioni di quella lotta, anche nella sue opere successive svaluta la «destra»; e non giunge alla verità che sinistra e destra erano entrambe sul terreno dei principi marxisti, e il «centro», nelle sue successive svolte nella politica sia russa che internazionale, ad ogni bordata ne andava sempre più fuori.
Trotsky ha il merito gigante di avere fin dal 1923 individuato questa manifestazione, che avrebbe ucciso il partito marxista che solo aveva raggiunto il potere: il maneggio dell'apparato di Stato, fredda e crudele macchina montata per il terrore sul nemico di classe, contro l'apparato del partito - e la derivazione di una tale patologica crisi dal cedere delle forze rivoluzionarie estere e dalla sfiducia verso di esse di una popolazione a enorme maggioranza non proletaria (249).
Fu con lui in questo la sinistra italiana - ma per motivo ben diverso da quello del successivo «trotzkismo». Non era ferita da quegli episodi di sopraffazione la non marxista esigenza del «rispetto democratico alla consultazione della base» ma la marxista dottrina che la dittatura rivoluzionaria non ha per concreto e fisico soggetto il popolo, e nemmeno la generica classe lavoratrice nazionale, ma il partito comunista internazionale e storico.
Il cammino della rivoluzione da socialista a capitalista era segnato allora dalle manovre inflitte dalla storia, e non dal capriccio del «non collegiale» Stalin, alla macchina di Stato russa - non lo era dai diffamati «capitolardi della destra». Quando destri e sinistri videro in pericolo l'essenziale della tradizione bolscevica e del comunismo mondiale, si unirono, ma tardi, dopo aver fatto la fine dei Curiazi, nell'ordine Trotsky, Zinoviev, Bucharin, nella lotta alla controrivoluzione staliniana che li uccise alla fine.
Non si stupisca dunque alcuno se riabilitiamo Bucharin, non dalla taccia di agente di borghesie straniere che le stesse sozze bocche degli sterminatori han dovuto rimangiare come i dementi consumatori del proprio sterco, ma dalle critiche vive nello stesso Trotsky al famoso «Arricchitevi!» (250).
11 - Ricorso marxista alla dialettica

Al di sopra di tutti sta l'esigenza che bisogna vivere, sia per il passo della rivoluzione mondiale, sia per il passo «esistenziale» dello Stato di Russia e del popolo di Russia, e quindi al di sopra del tremendo dilemma storico del 1926. Mostrammo a suo luogo che se Bucharin seguì Stalin in quella attitudine storica, lo fu perché concepiva questo ripiegamento nel rafforzarsi in Russia in vista solo di una guerra «rivoluzionaria» gigante contro tutti gli Stati capitalistici, che andavano conculcando le classi operaie europee. E sia detto che anche Stalin proclamava tale prospettiva fino alla vigilia del secondo conflitto imperialista, in cui genialmente sognò di fare contro gli Stati capitalistici la stessa politica che fece contro le interne «frazioni»: sterminarli in più tappe e restare solo e vittorioso, come Orazio Coclite! Perduto fuori della via del partito e della dottrina, cui manifestò congenite impotenze quando non poté più «rubare» idee ai cadaveri, Stalin ne è ripagato, lui morto, con l'essere svergognato da quelli che i mostri statali del capitale non vogliono uccidere, ma imitare in una corsa comune allo sfruttamento del mondo, la mano nella mano, sia pure con la fede dei ladri di Pisa.
Dunque il problema economico è vivere. Questo significa trovare una formula per il reale legame fra industria e terra, lo abbiamo detto - e sappiamo il senso del passaggio dalla formula comunismo di guerra alla formula NEP, dalla prima alla seconda tappa. Ora si tratta di capire lo svolto tra la seconda e la terza tappa, di cui abbiamo dato la serie.
Centro, sinistra e destra sono fermi, al 1927, sulla teoria di Lenin: l'agricoltura in piccole aziende è la morte della rivoluzione socialista. Lenin ha ben dovuto marxisticamente accettare il programma dei socialrivoluzionari, programma antimarxista - ma lo ha fatto non negandolo, e non cessando di mostrarlo radicalmente antimarxista. Solo così i bolscevichi hanno preso il potere e messo le basi alla fondazione dei partiti comunisti mondiali - Parigi valeva questa messa. Ma il sistema della piccola produzione ha così dilagato; il che vuol dire che il potenziale sia tecnico che politico delle campagne ha fatto un grosso passo indietro.
La formula della schiavizzazione dei contadini da parte dello Stato operaio, sia pur affacciata da qualche «sinistro» fuori di senno, ha fatto cilecca. Da chi non produce, prima perché non può e poi anche perché non vuole, nulla si ricava, ne per contrattazione ne per espropriazione, e nemmeno se lo si ammazza.
Eppure, o morire da fame, o uscire dalla frammentazione rurale.
La nazionalizzazione della terra, e meglio la statizzazione della proprietà fondiaria, vale solo ad impedire la formazione di una nuova «grande proprietà» agraria. Purtroppo per lo stesso motivo vale ad impedire il passaggio dalla piccola alla grande «azienda», e inchioda la terra alla limitatezza tecnica della sua cultura. Ma tutti cercano la grande azienda, che l'industria possa potenziare con attrezzature nuove - se agli operai industriali sarà dato da mangiare!
Trotsky e Zinoviev restano sul terreno di Lenin: passare, sia pure non per coercizione, dalla minutaglia contadina ad aziende a lavoro comune condotte dallo Stato (i sovcos) ossia con la terra dello Stato e il capitale di esercizio dello Stato (e quindi sono per l'intensa industrializzazione).
Stalin vuole ammettere che, denazionalizzando la terra, si riformino vasti possessi terrieri ove un grande affitto organizzi la produzione collettiva, evidentemente con salariati, e la rendita al proletariato.
12 - «Arricchitevi»

Bucharin difende, come la sinistra, la nazionalizzazione giuridica, e non è per la proprietà libera. Questa è una posizione di guardia per non ricadere nel passato e non perdere il potere. Ma intende che per la grande azienda occorre il grande capitale. Egli vede che l'industria può a stento avviarsi a produrre beni di consumo manufatti (e ciò dopo i beni di uso bellico, necessari al futuro scontro, per lui «offensivo» - il suo sogno bocciato da Lenin al tempo di Brest-Litovsk) ed al massimo beni strumentali per allargare l'industria stessa, ma non per la trasformazione agraria. La sua formula è che la terra resti allo Stato, ma il capitale agrario si formi fuori di esso.
Il commercio e la NEP hanno già dato luogo ad una accumulazione di capitale, ma nelle mani di commercianti, speculatori, che non sono legalmente più contrabbandieri, ma nepman, odiati dai contadini ma soprattutto in funzione dell'attaccamento reazionario alla gestione particellare. Questo capitale, parimenti minaccioso socialmente e politicamente, è sterile ai fini della produzione e del miglioramento del suo potenziale tecnico.
Bucharin, spesso sfottuto da Lenin suo maestro, sa il suo «Capitale» a menadito, sa che la classica accumulazione primitiva è nata dalla affittanza agraria, come in Inghilterra e altrove, e da questa origine sono sorte le «basi» del socialismo. È nutrito di altre tesi corrette: è follia pensare di avere il commercio in formidabile espansione, di trattare in forma mercantile, come Trotsky giustifica, la stessa produzione industriale, e non vedere crescere forme capitalistiche, di Stato o private, ma sempre tali. Se nell'industria significa salire l'andare da quelle private a quelle di Stato, nella campagna, se non esiste capitale né privato né di Stato, fa ridere pensare ad avere non solo socialismo ma anche statizzazione di capitale.
Bucharin non è in regola col solo Marx ma anche con Lenin. Lo scalino da salire in campagna è, come abbiamo detto, dalla forma 3 alla 4: dalla piccola produzione mercantile contadina al capitalismo privato.
La terra resta allo Stato, e il contadino ricco «di terra» sparisce (falso che Bucharin e i suoi difendano il kulak) ma compare il «colono dello Stato» che con suo capitale di esercizio e con salariati suoi (in forma non radicalmente diversa dal salariato delle fabbriche controllate, e poi statizzate) produce sulla stessa terra una massa maggiore di prodotti per la generale economia, e paga una rendita allo Stato, non più al proprietario terriero antico.
Perché la media unità aziendale cresca, occorre, è chiaro, che cresca il medio capitale aziendale e il numero dei lavoratori proletari rurali. Ciò non si ottiene se l'imprenditore agrario non accumula, e diventa più grande. Altra tesi corretta fitta nell'intelligente testa di Bucharin è che ogni Stato non ha la funzione di «costruire» e organizzare, ma solo di proibire, o cessare di proibire. Cessando di proibire l'accumulazione di capitale agrario sociale (Marx: il capitale che si accumula dai privati non è che parte del capitale sociale) lo Stato comunista prende una via più breve per salire la scala delle forme, i gradini di Lenin.
La formula non di Stalin, che fu solo un fabbricatore a posteriori di formule di demagogico effetto (nel che se non sta il genio, che ha bisogno di partiti e non di teste nella moderna storia, e forse sempre, sta una grande forza politica), la forma di struttura rurale che uscì dalla storia, il colcos, conduce meno rapidamente fuori dalla frammentazione contadina, di quella che proponevano Trotsky e Lenin, e di quella soprattutto di Bucharin - e con questa affermazione non abbiamo detto che vi fosse una triplice scelta possibile quando la polemica esplose.
Sì, il bravo Bucharin gridò: Arricchitevi! Ma Stalin fece di peggio e stette per gridare: Arricchitevi di terra! Lasciate solo lo Stato-industria, forza armata, a noi! Non pensò che chi ha la terra ha lo Stato.
La frase di Bucharin, che tutti ricordano senza ricostruire - è difficile farlo sui testi - la sua dottrina, ha questa portata: vi apriamo le porte della terra dello Stato: arricchitevi di capitale di intrapresa agraria, e verrà più presto il momento in cui vi esproprieremo di quanto avrete accumulato, passando anche nella campagna al quarto gradino, il capitalismo di Stato.
Al quinto, il socialismo, non vanno leggi o dibattiti di congresso, ma una forza sola, la Rivoluzione mondiale. Bucharin allora non vide questo, e fu grave.
Stalin si servì della tesi Bucharin per battere la sinistra marxista. Quando Bucharin vide che la storia spingeva Stalin non verso una scelta di strade al socialismo economico, ma verso la ricaduta dello Stato politico a funzioni capitalistiche interne quanto esterne, non vi fu differenza tra destri e sinistri, non vi fu più nulla a destra del centro, e tutti i marxisti rivoluzionari furono, per assorbenti ragioni di principio ben più profonde, contro Stalin, perdendo si, ma nella serie feconda di tutte le rivoluzioni schiacciate la cui riscossa verrà, e sarà soltanto di natura mondiale.
Notes:
[prev.] [content] [end]
243. Per maggior comodità di lettura, abbiamo qui distinta una III parte. I paragrafi seguono perciò da 1 a 121 invece che da 102 a 222 come nelle puntate del giornale (le puntate originale sono messo in []). [back]
244. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 46 e 47. [back]
245. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 49. [back]
246. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 48. [back]
247. Era la prospettiva delineata da Lenin nell'opuscolo del 1918, del riunirsi delle «due metà spaiate di socialismo» formatesi dopo la guerra: in Germania, «la realizzazione materiale delle condizioni economiche, produttive e sociali del socialismo» («inconcepibile senza la tecnica del capitalismo, costruita secondo l'ultima parola della scienza moderna»); in Russia, «la realizzazione materiale delle sue condizioni politiche»; in mancanza della quale riunione il compito della dittatura bolscevica sarebbe stato di «mettersi alla scuola del capitalismo di Stato tedesco» («Sull'imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 344). [back]
248. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 53. [back]
249. Cfr., di Trotsky, il «Nuovo Corso», 1924. [back]
250. Per una analisi approfondita del dibattito economico del 1926 - 1929 e delle sue complesse e a volte contraddittorie vicende (fra cui il finale «ravvicinamento», obiettivo anche se non dichiarato, fra sinistra e «destra» nella difesa del marxismo), è importante rifarsi al quinto paragrafo del III capitolo dell'opuscolo «Bilan d'une révolution», numero triplo speciale della rivista teorica internazionale «Programme communiste», ottobre 1967 - giugno 1968, pagg. 127-154, che ne tratta per esteso «in margine al 50' anniversario dell'Ottobre». Un più dettagliato studio di partito sull'intero dibattito è ora in corso, e sarà oggetto di pubblicazione: del dibattito stesso, nel presente volume, si danno solo le linee dorsali. [back]
SOURCE: «IL PROGRAMMA COMUNISTA», N. 25, DICEMBRE 1956

STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI (XVI)

[Intermezzo
Content:
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (XVI)
Intermezzo
Ricerca critica di parte e dialoghi col nemico
Saldatura autogena
L'essenziale sono i congressi?
Silenzi spezzati
Le cose e gli uomini
La via della Russia
Russia e marxismo classico
Via russa e marxismo russo
Via europea, italiana o di vattelapesca
La chiave di volta
Salpando l'ancora
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Notes
Source

Ricerca critica di parte e dialoghi col nemico
Saldatura autogena

(126) Non trovi il lettore scocciante e faticoso il fare quasi ad ogni ripresa il punto di tutto il cammino. Pedanteria è termine che abbiamo ormai passato a titolo di onore, con altri vari e noti. Ordine, continuità e concatenazione derivano dal nostro attaccamento dichiarato e sempre crescente al metodo teorico di lavoro, e alla nostra esecrazione per l'opera improvvisata, contingente, occasionale, situazionista, ispirata da velleità, pruriti o disfunzioni biologiche nel cervello degli interventori; dalla caccia facile e beota al consenso, al successo, e basta.
La nostra trattazione sulla Russia era stata svolta per la prima parte (la lotta di classe per conquistare il potere e per difenderlo), ed appena iniziata per la seconda (svolgimento delle forme di produzione dopo la rivoluzione), quando è stata interrotta dalle tre giornate e sei puntate dello scritto dedicato all'indagine critica sulle manifestazioni, ovunque accolte come fatto clamoroso, del XX congresso del partito comunista russo. Collegandoci con il «Dialogato con Stalin» che si riferiva al materiale, in sostanza, del precedente congresso, abbiamo intitolato il nuovo studio «Dialogato coi Morti». Non solo perché Stalin intanto era morto, non solo perché era inscenato un macabro duello di lui con gli altri grandi Morti, con Lenin e Marx, ma perché anche tutti gli altri morti, definiti come vittime di Stalin, hanno avuto la parola. Ultimi noi, minuscoli e pochissimi, col grave difetto di ostinarci a crepare di salute.
Non resta ora che riprendere nello stesso ordine progettato il testo esteso, procedendo nella descrizione e spiegazione dell'economia russa ed esponendo le tesi già ben note, sia per l'esposizione verbale che per il riassunto dato nei numeri 15 e 16 dell'annata 1955.
Prima tuttavia di riattaccare come se nulla fosse stato, dobbiamo aprire un rapido interludio, gettare un ponte provvisorio, per la chiarezza del procedere e per rilevare che l'interruzione, se anche non pianificata, non è stata né arbitraria né inutile, ed è invece servita a ribadire la continuità ed organicità del metodo seguito nella ricerca e nella esposizione.
L'essenziale sono i congressi?

Gli eventi che hanno provocato i due «Dialogati» - ossia hanno fatto sì che, sospendendo la nostra interna ed unilaterale indagine di parte, di partito, di scuola oggi sia pure numericamente ridotta, ed archiviando in tutta umiltà quello che può sembrare freddo monologo di un gruppetto che non ha attorno a sé rumore ed attenzione, ci dessimo alla discussione, alla polemica, al contraddittorio con un interlocutore d'altro canto da noi stessi evocato, e che non aveva e non ha mostrato desiderio di accorgersi del nostro dire - si sono in sostanza ridotti a due congressi. Sono dunque per noi cose tanto fondamentali i congressi, in cui torrenti di voce e rivoli di inchiostro avrebbero finalmente virtù di solidificarsi come ossature della costruzione storica vivente? Sarebbero i congressi a fondare e a plasmare gli accadimenti? È chiaro a chi ci abbia per poco seguiti che mai abbiamo pensato o detto nulla di simile. Come per noi tale virtù non hanno gli individui umani, e nemmeno quelli considerati per la loro notorietà eccezionalmente possenti, così non l'hanno né i congressi, né i gruppi di uomini che li sovrastano, e talvolta si pensa che li inscenino come valenti registi. Nemmeno il congresso fa accadere quel che vuole, realizza quel che pensa. Né esso né i suoi capi sanno quel che verrà, né soprattutto dicono quel che vogliono.
Ma in dati svolti, come questi due sono stati, molto si può leggere in quanto un congresso o altro vertice politico di organizzazione ha detto, molto e ben diverso da quello che i suoi attori pensano, dicono, o desiderano che si capisca.
Ed infatti i due svolti e le relative enunciazioni, ieri di Stalin, oggi di una mano di suoi spirituali figli, su cui tutta la banalità dell'opinione mondiale si getta per intendere che vi è di nuovo, che si prepara di nuovo, sono a noi serviti ad opposto scopo: dedurne le conferme di una teoria dello sviluppo russo da noi stabilita da gran tempo, perfettamente opposta a quella «ufficiale» del sistema politico e statale russo sotto Stalin e ancora peggio dopo Stalin.
Silenzi spezzati

Non certo per sciocca vanagloria ci preme mostrare, prima di riprendere il cammino del nostro studio alla pagina interrotta, che le risultanze del congresso ultimo sono venute, anche più presto di quanto fosse atteso, a dar conferma a quelle nostre posizioni che, immaginando di discutere con il «Grande Stalin», gli avevamo nel 1952 duramente contestato.
Converrà pregare i lettori di riguardare la prefazione e le prime pagine del volumetto allora edito, e da ciò resterà anche chiarito il problema testé posto, del peso che deve darsi ai congressi.
A nostro avviso, fin dal 1926 si pone il distacco del grande movimento russo cui si dà il nome di Stalin dalla linea marxista rivoluzionaria, e quindi anche da quella di Lenin. Fin da allora noi vivi-morti (Trotsky, Zinoviev, Kamenev, ecc.) negammo che il partito in Russia dovesse o potesse «edificare socialismo» come ripiego alternante al declino dell'onda rivoluzionaria occidentale; e affermammo che la società russa era addirittura preborghese e che, in quanto la sua economia poteva essere diretta, ed in mancanza della rivoluzione operaia europea, solo programma poteva essere quel «passo verso il socialismo» che consisteva nello sviluppare le piene forme mercantili capitaliste col traguardo estremo di un capitalismo statale nell'industria.
Stalin e i suoi sostenevano una tesi più radicale: ossia quella che (si fregassero i poco rivoluzionari proletari esteri) in Russia si sarebbe fatto il socialismo nell'economia senza aspettarli. Questa tesi, luridamente opportunista, era sventuratamente fatta per accecare molti militanti non «opportunisti», ma solo impazienti e formalisticamente, sentimentalmente estremisti. Noi, metterci a fare del capitalismo?! Orrore! Il tipo di questa categoria è il grande Bucharin, che ha dato filo da torcere a Lenin per tutta la vita: Noi, firmare la pace con gli imperialisti tedeschi?! La situazione divenne poi ben chiara quando non solo anche Bucharin fu trucidato, ma bollato sotto la vergogna non pure di traditore opportunista, ma di agente provocatore del capitale straniero.
Compagni alla Bucharin ne esistono ancora; in effetti possono fare tanto male, quanto gli opportunisti autentici. Per definirli, si è adottata da tempo la parola coniata da Lenin: infantili, cui si è dato significato oltraggioso laddove Lenin definì l'estremismo come mallatìa di infanzia, ossia di fisiologica crescenza del vigoreggiante comunismo. Per opporli all'opportunistico puttaneggiare di destra, chiameremo tali compagni con l'epiteto di casti. Attenti a non contaminarsi: condannerebbero col loro metodo il partito ad eterna sterilità, anche per quel momento supremo in cui la «ionizzazione della storia» chiama finalmente in campo senza veli il loro «dualismo semplicista», da essi ridotto, da punto di arrivo e di conquista, a chiave magica di tutta la storia.
Comunque, ora questo ci preme: messi i suoi contraddittori a tacere, lo stalinismo per un quarto di secolo abbandona quel dialogo storico; chiama socialismo la sua pratica di direzione economica statale. Siccome tutta la canea capitalista gli tiene pieno bordone, e per odio al socialismo contro di lui si arma di odio e di ferro, il regime e il partito sovietico non discutono affatto la posizione, schifata come «teorica»: Non è forse l'economia socialista, la società socialista, una cosa con cui la situazione russa nulla ha di comune?
Le cose e gli uomini

In questo assorbente conflitto traverso paci e guerre spaventose i pochi e ignoti che affermano: Il socialismo lì non v'è, non vi può essere, sono ridotti a monologare, non hanno con chi dialogare, e se un'eco sollevassero sarebbero facilmente raggiunti al Messico e altrove.
Perché, dunque, nel 1952, Stalin si mise a rispondere su questo? Pretese sul terreno della teoria confrontare le leggi dell'economia capitalista con quelle di un'economia socialista che a suo dire esisteva nel sistema russo? Messa la questione così, la risposta si cerca nella solita direzione: Distrazione? Errore? Finalità occulta? Piano segreto e diabolico? Noi cominciammo, da marxisti, a porre la domanda altrimenti: perché ha Stalin dovuto così risponderci, senza avere nemmeno l'idea che esistessimo?
Scrivemmo nel «Dialogato» con lui:
«Stalin risponde sui punti posti in due anni dal nostro movimento [...]. Non intendiamo con questo dire [...] che si sia rivolto a noi [...]. Non si tratta, per marxisti, di credere che le grandi discussioni storiche abbiano bisogno di protagonisti personificati [...]. Egli è che i fatti, e le forze fisiche, dal sottofondo delle situazioni, prendono deterministicamente a discutere tra loro...» (127).
Noi tendiamo a questo risultato (che era alla portata di chiunque abdicasse alla stupida fregola di prenotare un posto nei palchi reali della storia), di avere impostata una anonima discussione tra i fatti e le cose, svolta da vivi e da morti che si contava dormissero l'eterno sonno dell'infamia (infame: chi non può più parlare e di cui non si può più parlare), che ha inchiodato - non certo per forza di soggettivo merito, ma per avere intesa la via delle forze oggettive - e condannato l'avversario a venire nolente su quei temi che riteneva avere per sempre portato sotto il peso soffocante dell'ombra.
Fin da quattro anni addietro il sistematico sviluppo della originale posizione marxista ci permise di anticipare su quali vergognosi termini si sarebbe edificata la preveduta confessione, che dicemmo apparentemente fronteggiata e frenata, ma in realtà preparata da Stalin, sulla natura non socialista di quella economia. Avvertimmo quindi con quali sozzure si sarebbe presentata una tappa ulteriore, che nel XX congresso ha preso la viscida formula delle nuove vie di passaggio al socialismo, lubrificata con l'ipocrita condanna di quelli che si definiscono oggi non tanto gli errori, quanto gli orrori di Stalin.
«I metodi di repressione, di stritolamento che lo stalinismo applica a chi da ogni parte gli resiste non devono dare appiglio alcuno ad ogni tipo di condanna che menomamente arieggi pentimento rispetto alle nostre classiche tesi sulla violenza, la dittatura e il terrore, come armi storiche di proclamato impiego; che lontanamente sia il primo passo verso l'ipocrita propaganda delle correnti del «mondo libero» e la loro mentita rivendicazione di tolleranza e di sacro rispetto alla persona umana. I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico. Nulla quindi abbiamo a che fare con la richiesta di metodi più liberali e democratici ostentati da gruppi politici ultra-equivoci, e proclamati da Stati che nella realtà ebbero le più feroci origini, come quello di Tito» (128).
Nel pieno sviluppo di una linea diritta e coerente, non ci hanno quindi affatto commossi o scossi gli insulti dal XX congresso al nostro gran nemico Giuseppe Stalin, perché diretti soltanto a fornicare con la democrazia mondiale, ad avviare i complimenti servili alla libera America mediante quelli al diffamatissimo capo dello Stato jugoslavo. La surrogazione e sostituzione delle persone, cui solo guarda la morbosa attenzione del mondo, sempre meno influisce a nascondere la contrapposizione inconciliabile tra i metodi dell'opportunismo e quelli, cui ad ogni tappa più si volgono le terga, della lotta rivoluzionaria.
La via della Russia

La storiella della via «nazionale» per il socialismo puzza di fradicio da un secolo. Fino al «Dialogato con Stalin» questa questione della via violenta o pacifica non si era ancora osato scoprirla: la pietra angolare della dittatura proletaria non era stata ancora insidiata con le mine pacifiste. Stalin nel suo ultimo scritto adombrava ancora questa posizione:
Tra forma capitalista e forma socialista, è la forza che deciderà. Dal 1926 noi abbiamo dichiarato di soprassedere al suscitamento della guerra interna di classe all'estero. Tuttavia alla vigilia del 1939 dicevamo ancora che avrebbe deciso la forza bellica; sotto forma di vittoria in campo dell'esercito rosso e russo. Dopo la disfatta dei tedeschi facemmo credere agli operai del mondo che per una tal via avremmo abbattuto l'America. Oggi (1952) siamo per la pace, ma difendiamo ancora la tesi di Lenin: la fine delle guerre sarà data dalla caduta del capitalismo e dell'imperialismo. E la terza guerra imperialista scoppierà tra le potenze estere, anche se noi ci dichiariamo pacifisti e non la faremo se non «aggrediti». Così Josif.
La teoria della forza come «via di passaggio al socialismo» veniva così ritirata dal campo internazionale; ma, dicendo che solo la caduta del capitalismo avrebbe posto fine alle guerre, si mostrava ancora di credere alla via della forza all'interno degli stati.
Oggi il passo indietro è più vergognoso: si dichiara nel campo internazionale attuabile la pace perpetua con i paesi capitalistici, o tra essi. Si dichiara inoltre di ritirare la teoria della forza dal campo sociale: tale viltà Stalin non l'aveva consumata ancora.
La via della forza, la teoria della forza, espulsa ovunque, resta in piedi per due soli casi storici eccezionali. Nel passato, per la rivoluzione russa, che era di un suo tipo speciale, nazionale! Nel futuro, se la pace non si impone per emulativa convinzione, nel solo caso che vada difesa la patria russa da un «aggressore»! Così il XX congresso.
Crediamo importi far notare come tutto questo sviluppo sia esaurientemente giudicato e spiegato dalle connessioni tra il primo «Dialogato», lo studio generale sulla Russia, e il «Dialogato» di oggi.
Russia e marxismo classico

Perché avrebbe la Russia dovuto percorrere, essa sola, la via della forza per andare al socialismo?
Nella riunione di Bologna esponemmo e rivendicammo la visione del primo marxismo europeo sulla «strada russa». Nessuno allora si chiedeva: la forza o la pace?
Questo vecchio sogno dell'evitamento della forza - partimmo di lì - ha tre tappe.
Per il cristiano la meta è raggiunta da duemila anni; occorre solo un'emulazione persuasiva tra uomini e tra genti per proseguire la vita dell'umanità. È il religioso il precursore della teoria della pacifica coesistenza tra il potente e il debole, il ricco e il forte, la gente A e la gente B...
Per il borghese liberale occorre per togliere di mezzo l'uso della forza ancora una tappa, ma una sola, sanguinosa: la rivoluzione che abbatta i regimi feudali e assolutisti. Dopo ciò, tra cittadini eguali, la generale coesistenza sarà possibile; e tra popoli liberi idem con patate.
Il marxismo richiama per una terza volta il compito della forza nella rivoluzione di classe entro ogni paese: non esorcizza la forza nelle guerre tra stati, ma stabilisce che solo la vittoria proletaria internazionale porrà loro fine; non forme di accordo, intesa, rispetto o organizzazione mondiale.
Caso della Russia: consenso unanime di borghesi liberali e proletari marxisti dell'ottocento: occorre la forza per buttare giù lo zar.
Problema storico: si può con questa stessa rivoluzione passare al socialismo saltando il capitalismo? Risposta (qui richiamiamo per cenni quanto svolto a fondo nei riflessi sociali e storici): no, non si potrà saltare il capitalismo.
Se tuttavia la rivoluzione liberale russa scatena la rivoluzione sociale in occidente, e se non è dubbio che qui e ovunque la via sia la forza (come solo i revisionisti e i socialdemocratici verranno in fine ottocento, tradendo Marx, a negare) allora le due rivoluzioni in Russia potranno sovrapporsi. Ma se l'Europa, dopo caduto lo zar, resta borghese, la conclusione è che la forza deve agire in Russia anche una seconda volta, così come nel «caso generale».
Via russa e marxismo russo

Venimmo quindi a spiegare a lungo come i marxisti russi, Plechanov e poi, anche contro questo suo maestro, Lenin ribadiscono la teoria della doppia forza, della doppia rivoluzione russa.
Questa teoria non si smuove di un passo dal punto che la seconda rivoluzione russa abbisogna come condizione della rivoluzione socialista occidentale. La sua originalità, se tale è, è solo quella di non dar credito alla classe borghese e ai suoi partiti, ai ceti medi e ai loro partiti, nemmeno per fare la prima delle due indispensabili rivoluzioni.
Il proletariato e il suo partito marxista le condurranno entrambe. Prima aiuteranno chiunque a rovesciare lo zar. Poi avranno dalla storia due alternative: o prendere il potere mentre lo prende all'estero il socialismo internazionale, e allora «amministreranno» la trasformazione socialista dell'economia. Ovvero prenderanno il potere soli in Russia: allora (fu sempre detto crudamente, e ne abbiamo dato mille prove storiche) attenderanno la rivoluzione internazionale «amministrando» la trasformazione della società russa in capitalismo. Come stabilito dallo scontro dottrinale del 1926, non «edificheranno il socialismo», ma «le basi del socialismo».
Questa presa del potere contro i partiti borghesi e piccolo-borghesi, con il solo appoggio sociale dei contadini poveri (non proprietari) e con una politica economica di tipo transitorio e impuro, fu prevista nettamente, ed attuata come una vittoria del socialismo, ma non come la nascita di una società socialista.
Tutto ciò stabilito nella dottrina e riscontrato negli avvenimenti, in che la via russa differirebbe da quella di altri paesi, più avanzati come struttura produttiva?
In questo solo, che la dittatura proletaria di Marx è necessaria due volte, in doppio modo: in un primo periodo in cui serve solo a ributtare le forze feudali e ad abbattere la forza politica della borghesia, in un secondo in cui servirà al passaggio, come in Europa, e con l'Europa o i suoi paesi più importanti, alla forma economica socialista.
Via europea, italiana o di vattelapesca

Non dubitiamo che in un primo tempo a compagni anche ferrati non sarà sembrato sicuro che la posizione fondamentale giusta fosse quella di dire: Si deve ottenere un'economia capitalista, non socialista, nella Russia sola; e dichiarano. Non è questa una tesi troppo debole? avranno molti pensato. Molti avranno ammesso la nostra prova dottrinale contro Stalin che la forma russa, anche nell'industria, ha carattere capitalista e non socialista, ma in un primo tempo saranno stati condotti a dire: Stalin è un porco, perché ha edificato capitalismo. Ha sapore più dialettico la posizione completa: Stalin è un porco (lasciamo la forma sommaria) perché ha abbandonata la rivoluzione europea, e perché chiama socialismo una forma borghese, mentre Marx e Lenin e tutti avevano stabilito che solo con la rivoluzione europea si poteva da quella forma uscire.
Adesso si vede bene, dopo la clamorosa gettata fuori bordo della dittatura per i paesi capitalistici, dopo il ripiegamento quanto a «filosofia della violenza» su posizioni puramente liberali, peggio ancora che socialdemocratiche, quale sbandata fu quella dei casti, che con Bucharin, dando causa irreparabilmente vinta allo stalinismo, dunque alla controrivoluzione, affermavano che, avendo la dittatura politica ferma in mano, non si sarebbero fermati e avrebbero a dispetto di tutto «creato il socialismo».
Stalin nel XIX congresso dichiarò che ormai questo era fatto, e che ci si accingeva a passare allo stadio superiore, al comunismo integrale: il mondo borghese rifischiò ovunque l'enorme panzana.
Il XX congresso, pure facendo strame dell'opera storica, politica. organizzativa, economica di Stalin, nei limiti in cui questa ancora era tale da far passare brividi marxisti nelle schiene borghesi, mantiene ancora la definizione di costruito socialismo, e di iniziato stadio comunista, mentre tende ai capitalismi esteri passerelle mercantili di affaristico fornicamento.
In questo stesso piano ed intento, porge le scuse di avere in Russia dovuto servirsi di dittatura, forza, violenza, terrore, e dichiara che sono arnesi di uso esclusivo, come lo knut. Era un affare interno, nazionale; quel solo superstite esempio storico di dittatura che si salva (mentre impudentemente si dice di lasciare Stalin per ritornare nel grembo di Marx-Lenin) bisogna riferirlo non ad una generale dottrina della fine del capitalismo, fondata da Marx e restaurata contro ogni attentato da Lenin, ma alle dottrine della fine del feudalismo, a Robespierre e a Danton. Marx è ridotto a zero, mentre si ostenta di togliere via i ritratti di Stalin e sbandierare la sua turbolenta barbaccia. Si promette al mondo borghese che la dittatura non la vedrà mai, perché le vie sono tante e tante, e solo quella russa era così amara e cattiva. È poco ancora la scusa: c'est la faute à Staline - quei signori del XX dicono di più: c'est la faute à... Raspoutine! (129).
La chiave di volta

Consentiamoci dunque di guardate alla nostra umile, lenta, ma saldissima costruzione. È palese nell'ultima tappa la rovina di ogni parte storica, organizzativa, politica classista. Nelle giornate dell'ultimo «Dialogato» abbiamo mostrato l'estensione della rovina.
Storia: ci siamo nel nostro resoconto serviti passo per passo dell'ufficiale «Corso di storia del partito bolscevico», dimostrandone le enormi falsità: oggi l'ostacolo crolla davanti a noi spontaneamente. Il seguito del nostro testo prenderà un altro tono: piccola prova che non nasce da teste brillanti, ma dalla fedeltà al determinismo materiale.
Organizzazione: ad ogni tratto abbiamo messo in evidenza il compito del partito di classe, la necessità che sia continuo nel tempo, legato ad una stessa teoria: oggi abbiamo potuto mostrare come, non appena allentati i freni, sia pure tra ipocrite ortodosse dichiarazioni di rispetto, le affittate bande di social-traditori corrono a disonorare questa non meno fondamentale «pietra angolare» di cento anni di marxismo.
Lotta di classe: non si vede solo sconfessata la guerra civile, ma resa regola generale l'alleanza con classi medie e anche borghesi, nei limiti legalitari e costituzionali più proclamati e sacri.
Politica e teoria dello Stato: si vede distrutta la dottrina dello Stato di classe e della conquista del potere: come dicevamo, forza, violenza, dittatura e terrore sono cacciati via con indignazione da tutto il mondo: giustificati nella sola Russia. Ma qui non è eccezione tra le vie al socialismo; è conferma della regola per le vie al capitalismo, in Inghilterra, Francia, ovunque, e Russia infine! La teoria dell'autonoma rivoluzione proletaria è ritirata al mille per mille.
Filosofia: ogni dottrina sul generarsi della storia dalle forze collettive adagiate sulle situazioni economiche è barattata: abbiamo a fondo mostrato come nulla di ciò è salvato dal capolavoro dell'ipocrisia in questo congresso: il preteso svolto dal culto di Stalin alla direzione collegiale. Per Stalin vi è stato un solo svolto: il passaggio tra il suo tracotante atteggiamento verso le potenze borghesi, ad una piaggeria lubrica, ad un'offerta di buona coabitazione in un mondo comune, lupanare di affari del commercio borghese d'ogni riva.
Se ci è stato dato con tanta facilità di tratteggiare nel 1956 questo bilancio totalitario della calata dei guastatori in tutto il campo della nostra sovrastruttura ideologica, proletaria e marxista, ponendo in chiara luce il sostituirvisi in tutto e per tutto di sovrastrutture borghesi, è stato in quanto nel 1952 abbiamo constatato nella base economica del sistema di Stalin lo stesso totale abbandono delle posizioni socialiste e l'adesione alle leggi e forme di produzione e di scambio che definiscono il capitalismo e che allo stesso tempo abbiamo identificate nella realtà della forma russa, nella descrizione che Stalin ne confermava, e nella teorizzazione eterodossa e destituita di ogni forza scientifica che egli ne tentava.
È quindi di pieno valore determinista e marxista il legame indissolubile che stringe la fase storica che si vuol impersonare in Stalin e nella sua vita politica, con la corrente di quelli che, sulla scena del XX congresso, si sono voluti accreditare atteggiandosi a rinnegatori di lui.
In tal senso, la scuola del marxismo integrale dà peso a questo svolto, che ha attirato l'attenzione del mondo, e ne ribadisce la portata in nuovi passi verso l'altro svolto col quale, in non lontano avvenire, il regime statale russo si allineerà storicamente con quelli degli altri paesi, dichiarerà che la sua ideologia e la sua pratica coincidono con quelle dei paesi industriali esteri, e con quanto essi anche denunziano di socialità assistenziale, di sporca lode e gratitudine sociale alla classe soggetta a servitù di salario, di devozione al comune moderno stupido idolo della tecnica superproduttiva, del benessere e dell'alto reddito «nazionale».
Salpando l'ancora

Nell'esposizione storica, alla quale torniamo dopo avere non solo narrato tutte le vicende delle fasi rivoluzionarie successive e di quella finale di difesa del potere nella guerra civile dal 1917 al 1922, ma soprattutto dato passo passo l'interpretazione bolscevica e leniniana del processo che si svolgeva, siamo dunque appena passati allo studio delle misure sociali del nuovo potere, in quanto tendenti a controllare il processo economico.
Abbiamo stabilito e dobbiamo seguitare a stabilire una sicura coerenza tra queste «realizzazioni» e la teoria sempre svolta dal partito di Lenin, lui vivente, e poi rivendicata nelle varie tappe fino al 1926.
Siamo risaliti a testi di programma economico dovuti a Lenin e scritti alla vigilia dell'Ottobre, per mostrare quanto fosse chiara la prospettiva di dovere operare in una forma sociale mista di tipi preborghesi, in cui restavano da superare avanti tutto forme asiatiche, patriarcali, feudali, e per la quale la formazione sistematica di un mercato interno di scambio di prodotti industriali e agrari era ancora un passo avanti non solo, ma difficile e laborioso, fino a quando il capitalismo avesse imperato un metro oltre le frontiere della repubblica rossa.
In quell'opuscolo del 1917 è contenuta tutta la teoria posta a base dello scritto del 1921 sulla «imposta in natura», che ora si tratterà di utilizzare a fondo, costituendo uno dei fondamentali contributi di Lenin al marxismo.
Né Lenin né la Russia (né la storia) hanno nel 1921 deciso di fare un passo indietro, rinunziando a seguitare a prendere misure statali di contenuto comunista e socialista per dare il passo al «ritorno» su forme borghesi. Quella fase era in dottrina integralmente scontata, e le misure prese ebbero lo stesso carattere politico di «passi verso il socialismo», ed economico di materiale e necessario passaggio per tappe ancora capitaliste, e meno che capitaliste.
È quindi il momento di sfatare la leggenda del «comunismo di guerra» che abbiamo più volte mostrato vana. Senza di ciò non resterebbe che partecipare alle lodi di Stalin, che sarebbe dalla Nep andato oltre contro la borghesia rurale (il che nel giusto senso è un fatto) e che con questo avrebbe «edificato socialismo» (il che è corbelleria). E senza di ciò bisognerebbe sorbirsi nientemeno che la feccia dell'ultimo calice, quello di un Nenni che sogna con prostituta gioia addirittura ad oggi 1956 l'uscita dal «comunismo di guerra»; e ne deduce la vittoria del «comunismo costituzionale», del «comunismo di pace»; ossia (da uomo che non ha scrupoli nel calpestare la dottrina, e che quando lo fa non lo sa neppure) cammina, e sia lode a lui, da buon antesignano della gettata nella fogna dell'ultimo lembo della bandiera del socialismo, e del partito del proletariato, in cui entrò col grimaldello!
Evitiamo simili mefitiche compagnie, ed auguriamo una non lontana riconquista, non di bandiere, ma delle nostre parole, di quel cibo che (come in una frase di Galileo vecchio e perseguitato) solum è mio.
Noi che non abbiamo culti seguitiamo a mostrare la via di Lenin, il cui sguardo fissa con uguale potenza la realtà presente e la futura: ritmo basso e umile di trasformazione economica, dinamica scatenata della guerra sociale contro ogni immane forza nemica.
Notes:
[prev.] [content] [end]
126. Apparso nel numero 11/1956 de «Il programma comunista» e destinato a gettare un ponte fra i paragrafi 8 e 9 della II° parte, nell'intervallo fra i quali il 20° Congresso del PCUS ci aveva imposto l'ampio commento critico e demolitore del «Dialogato coi morti», uscito a puntate nei numeri intercalari de «Il programma comunista». [back]
127. Nel cit. «Dialogato con Stalin», pag. 8. [back]
128. Nel cit. «Dialogato con Stalin», pag. 6. [back]
129. Si veda anche nel nr. 14/1956 de «Il programma comunista» il «Plaidoyer pour Staline». [back]
SOURCE: «IL PROGRAMMA COMUNISTA», N. 11, MAGGIO 1956

STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI (XXX)

[Collegamento]

Content:
Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (XXX)
Collegamento
48 [149] - Il corso dell'industrializzazione
49 [150] - Investimento e finanziamento
50 [151] - Accumulazione e denaro
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Notes
Source

Collegamento

(273) Queste ultime puntate del resoconto diffuso sulla struttura sociale russa hanno dovuto essere interrotte per due numeri del quindicinale al fine di dare posto al resoconto preliminare e riassuntivo sul tema della riunione di Ravenna, che ha invece trattato della società di Occidente. Occorre un ricollegamento, sotto forma di inevitabile e breve ricapitolazione di quanto già esposto nella seconda parte, riguardante i rapporti di produzione nella Russia odierna ed il loro storico svolgersi a partire dal 1917.
Non per un sunto ma per un richiamo di questa parte in corso, ricordiamo che prima di addentrarsi nelle questioni di economia essa ha dovuto sviluppare a fondo ancora argomenti politici e storici, da quelli inseparabili. Si è discussa a fondo quale era la prospettiva degli sviluppi economici che il partito bolscevico presentava come prevedibile dopo la conquista del potere da parte sua, e tutto ciò era indispensabile al fine di polemiche ancora ardentissime, per stabilire che mai si era presentata possibile la formazione di una struttura sociale comunista o anche di primo socialismo. La rivoluzione, nell'opera di Lenin, che molto minutamente esponemmo dimostrando come la prospettiva di base non fu mai mutata per svolti storici, aveva un contenuto politico totalitario, ma quanto a contenuto sociale si prefiggeva trapassi di forme produttive molto anteriori a quello dal capitalismo al socialismo: la sua leva di base era il legame alla rivoluzione politica operaia europea, dalla quale soltanto poteva derivare l'avvento della società socialista in Russia. Né si poteva non ricollegare questa polemica sui fatti storici e sui testi dottrinali con l'ardente dibattito attuale contro la menzogna del costruito socialismo nella sola Russia.
Sono state quindi ad ogni tratto riferite le opinioni di Lenin, Trotsky ed altri marxisti russi, e la grande lotta che nel partito si svolse alla morte di Lenin, come si erano ampiamente trattate quelle durante la sua vita.
Base essenziale della successiva storia delle mutazioni economiche fu la teoria contenuta nell'opuscolo sull'Imposta in natura, che consente di classificare le forme sociali presenti in Russia allo scoppio della rivoluzione e di esporre la nota successione delle fasi, la cui interpretazione non si è potuta non collegare in tutta ampiezza alle polemiche di allora, di dopo e di oggi: comunismo di guerra, nuova politica economica, «collettivizzazione» e guerra ai kulak, grande sviluppo da un lato dell'industrialismo di Stato, nella nostra tesi forma capitalista - mercantile - monetaria e dunque non socialista, e dell'agricoltura colcosiana, con la sua faccia cooperativa, che è di capitalismo privato, e l'altra familiare-aziendale che nella nostra tesi è la più retriva, e rispondente a forme sociali del tutto precapitalistiche.
Trattando dei rapporti produttivi di queste due sezioni della struttura russa, esse sono state ovviamente riferite all'ordine giuridico nello Stato, con la critica alle due Costituzioni del 1918 e del 1936, radicalmente diverse, e ai conflitti politici nel partito, in cui vinse sanguinosamente la fazione fautrice dell'autarchia nazionale e dell'abbandono dell'internazionalismo comunista.
Ad ogni tratto abbiamo confutato le tesi, dei trotzkisti e di altri gruppetti di falsa sinistra antistalinisti, sull'apparizione di una forma sociale intermedia tra capitalismo e socialismo, in cui classe privilegiata sarebbe la burocrazia delle gerarchie statali e di partito, opponendo a questa tesi amarxista quella del legame tra capitalismo russo e mondiale come forza di classe, malgrado gli insanabili conflitti imperialisti, negati dalle teorie pacifiste del Cremlino; e abbiamo sviluppato alla luce della teoria marxista la relazione tra il settore agrario e quello industriale, mostrando come nell'industrialismo di Stato si alloga una protezione alle classi medie e contadine a danno del proletariato, a questo più sfavorevole che in alcuni regimi di capitalismo classico e privatistico.
Indubbio legame determinista collega quest'economia interna di privilegio verso le classi medie alla politica medioclassista dell'opportunismo mondiale filorusso.
Dopo l'ampia dimostrazione della struttura del colcos, e la dimostrazione del peso economico delle sue due facce capitalista ed ultraprivatista minimale familiare, siamo giunti al rapporto quantitativo tra popolazione e produzione delle campagne e delle città. Le gravissime contraddizioni nella materia delle cifre russe ci indussero nell'ultima puntata a riesporre tutta la statistica storica demografica dal 1914 ad oggi, mettendo in rilievo i tragici contributi alle due immani guerre del capitalismo imperiale, e la morbosità dell'inurbamento in corso, che mentre piomba il proletariato delle fabbriche nella peggiore oppressione, è vantato come aspetto della vittoria del socialismo, esagerando perfino la portata già paurosa di questo fenomeno sconvolgente.
Chiave del problema sociale non è il passaggio dei mezzi industriali di produzione nelle mani dello Stato, che non li ha tolti ad una classe borghese ma accumulati col sangue operaio (e, nelle guerre, anche contadino) bensì il quadro della società rurale, che si legge luminosamente se vi si proietta la luce grandiosa della teoria marxista sulla questione agraria, di cui fu Lenin il più formidabile ed ortodosso dei propugnatori, contro il bestiale populismo individualista, che seppe prosperare sotto i colpi spietati del partito dei nullatenenti (274).
48 - Il corso dell'industrializzazione

Innumeri volte abbiamo mostrato come l'effetto della guerra, dei rovesci dello zarismo, delle guerre civili che avevano accompagnato la sua caduta, dell'invasione tedesca che con due ondate formidabili costrinse alla pace di Brest Litovsk, delle successive non meno feroci invasioni ordite dai paesi borghesi dell'Intesa da tutti i lati dell'orizzonte geografico e politico, fu in realtà di distruggere la macchina economica. Resistette di più l'agricoltura appunto per le sue forme primitive, naturali ed immediate, pur subendo tremende falcidie; ma la produzione industriale fu ridotta praticamente a zero, e altrettanto dovette dirsi dei trasporti, dei commerci e di tutti i servizi pubblici generali. Ad un certo momento, verso il 1919, il solo problema militare conservava una trama di amministrazione, organizzata in forme materiali e coattive. Anche nella recente riunione di Ravenna (275) abbiamo ricordato gli indici russi della produzione industriale che legano i due capitalismi, quello di anteguerra e quello post-rivoluzionario. Rettifichiamo qui il materiale errore di riferire quegli indici al 1913 mentre sono quelli riferiti al 1929 (Stalin, Kruscev ed altri). Il significato è tuttavia lo stesso: 1913: 52; 1920: 7; 1926: 56; 1955: 2049.
La rivoluzione non conquistò né ereditò nessun capitale accumulato: la guerra e la rivoluzione stessa lo avevano distrutto. Non si trattava di solo dissesto sociale ed umano, ma di dissesto delle cose fisiche: restavano le aree degli stabilimenti distrutti e abbandonati, ma non vi erano più macchine ed installazioni o almeno il loro rottame, usato a fini di emergenza da amici e nemici; non vi erano materie prime nei magazzini: il capitale costante era a zero. Il capitale lavoro era anche disperso essendo gli operai caduti, ovvero al fronte nelle formazioni rosse, mancando paurosamente la mano d'opera qualificata e avendo gli specialisti e dirigenti tecnici ed amministrativi seguita in gran parte la controrivoluzione, per cui a loro volta o erano stati uccisi o combattevano su vari fronti esterni.
Se restava un capitale finanziario e monetario, questo era fuori dalle disposizioni del potere rivoluzionario perché in parte lo aveva distrutto l'inflazione astronomica e dall'altra i crediti sull'estero erano fuggiti coi bianchi, e non restava che annullare i debiti esteri, con il che non risultava nessun attivo disponibile in Russia.
Abbiamo anche più volte dato le cifre della produzione, ad esempio, dell'acciaio, che negli anni 1918 e 1919 si ridusse a poche migliaia di tonnellate, in così immenso paese, e sebbene si trattasse della produzione base quando il primo problema è la guerra guerreggiata.
Questa situazione tante volte illustrata dal partito e negli scritti di Lenin sta a spiegare come tutto si falsi quando si mette in prima linea, quasi che nei suoi limiti fosse compreso tutto il socialismo, la presa di possesso degli impianti di produzione, che tolti ai capitalisti imprenditori privati passano allo Stato della rivoluzione. Praticamente questo trapasso mancava del suo oggetto, e non vi era nulla da prendere ai borghesi e da gestire, in forme più o meno collettive. Evidentemente la socializzazione dei mezzi di produzione è una formula del marxismo, ma rettamente intesa comporta una serie di altre condizioni, che si riassumono nella disponibilità dei prodotti di un ciclo attivo, che cessano di essere appropriabili dagli imprenditori e, tramite una nuova e ben diversa distribuzione come una ben diversa remunerazione del lavoro, divengono appropriabili dalla classe proletaria divenuta dominante nella società.
Il fatto giuridico di passare allo Stato le proprietà legali dei cantieri e degli stabilimenti vuoti e fermi, annullando il diritto dei borghesi fuggiti od uccisi, è un necessario atto rivoluzionario, ma manca del suo contenuto economico quando si tratta di una produzione a ciclo e gettito spezzato.
Lo Stato sovietico si dovette porre il problema di riaccumulare il capitale distrutto e svanito, anzitutto nella modesta misura del tempo zarista, con inadeguata partizione tra le varie industrie e le varie regioni del paese, e si trattò di creare una nuova dotazione industriale pressoché dal nulla e forse peggio che dal nulla. Partendo da mezzi di produzione efficienti e da alte scorte di prodotti di partenza e di arrivo dei cicli, con un'industria estrattiva non ferma e una rete di trasporti non bloccata, si può porre la questione di dar vita ad una nuova originale gestione dell'industria, non mercantile, aziendale e salariale; ma quando non vi è da porre la mano che su pezzi di carta, su titoli di diritto, e sulla fisica carcassa di qualche avente titolo recalcitrante e protestatario, il problema di aprire una produzione socialista non si pone nemmeno: la classe borghese vinta, dispersa ed annientata non resiste più (salvo che nei suoi velenosi legami con gli Stati capitalisti esteri) ma in ciò non è nessun pezzetto di economia socialista.
49 - Investimento e finanziamento

Riattivare l'industria era l'esigenza centrale, e prima ancora che sociale e politica fu esigenza militare, dato che gli eserciti nemici erano attrezzati e munizionati dal capitale ben vivo dell'estero, e non da quello della classe borghese russa, che lo aveva a sua volta perduto (prima che ne fosse espropriata) per fisica distruzione e disorganizzazione.
Questo problema restava difficile pur essendo la Russia un paese più che ricco di naturali risorse, nel sottosuolo e nell'energia idrica, punti che per primi attirarono l'attenzione e la fervida propaganda di Lenin; la cui frase che il socialismo significava il potere bolscevico più l'elettrificazione di tutta la Russia ancora si sfrutta, ma che quando fu detta stava a provare che per il momento la sola condizione del potere bolscevico era incompleta.
Abbiamo messo abbastanza in evidenza che Lenin riteneva indispensabile per una pronta riaccumulazione di capitale industriale andarlo a prendere dove ce n'era. Vedeva questa possibilità in due modi: il grande e classico, che mai fino alla sua morte uscì dalla sua prospettiva, era la conquista del potere da parte dei proletariati d'Europa, e in primo luogo di quello tedesco, il cui governo comunista avrebbe subito rovesciato in Russia macchine, materie prime, lavoratori qualificati e tecnici, di cui la dotazione era di molto superiore alla minima che permette, distrutta l'impresa mercantile, di far scattare una produzione sociale: come le riprese dell'industrialismo dopo le due guerre rovinose hanno dimostrato.
Il secondo mezzo era di farsi prestare questo capitale dai borghesi esteri, le concessioni su cui Lenin batté senza posa e senza timore. E siccome nelle campagne vigeva un ciclo produttivo sia pure primordiale, di far passare le forme di esso oltre il livello della produzione mercantile contadina e verso quello del capitalismo privato, scalino che precede il capitalismo di Stato. Dal che mostrammo non insensata la formula di Bucharin che preferiva nelle campagne un germogliare di capitalismo (indubbiamente pericoloso anche come nemico politico) al consolidarsi dell'ibrida forma di economia frastagliata, che si chiamò colcosiana e si spacciò per collettivizzazione rurale.
All'inizio della lotta tra stalinismo ed opposizioni e fin dal 1924, l'opposizione di sinistra che aveva a capo Trotsky e a cui tardi si riunirono Zinoviev e Kamenev, fu la prima a porre in evidenza la necessità vitale di far risorgere e di potenziare la caduta industria russa, e Stalin e i suoi vi si opponevano.
Si fecero allora calcoli su una velocità fantastica di industrializzazione, e la corrente Stalin derise i «super-industrializzatori». Eppure la corrente Trotsky era quella che non vedeva in quella corsa intensa all'industria la corsa all'economia socialista, ma stava ferma sul terreno che il socialismo russo, come nel concetto di Lenin, non poteva che seguire alla rivoluzione proletaria di Occidente.
Trotsky, nei primi capitoli della «Rivoluzione Tradita», cita queste parole di Stalin, contro l'opposizione del 1927. Egli ne deplorava «i fantastici piani industriali», e sosteneva che l'industria non doveva «anticipare troppo, staccandosi dall'agricoltura e trascurando il ritmo dell'accumulazione nel nostro paese». Al XV congresso del dicembre di quell'anno fu dato un avvertimento ai superindustrialisti contro «il pericolo di investire troppi capitali nella grande edificazione industriale» (276).
Secondo Trotsky fu proprio la sua opposizione a sostenere che si sarebbero dovuti raggiungere ritmi di incremento del 15 e 18 per cento annui «per avere, grazie all'accumulazione socialista, uno sviluppo ad un ritmo del tutto irraggiungibile per il capitalismo». Possiamo ammettere che in questo passo le parole di accumulazione socialista si riferiscono al colore politico socialista del partito che era a capo dello Stato, altrimenti sarebbe stato Trotsky a fare una concessione alla costruzione del socialismo in Russia (277). Comunque la sua testimonianza è indubbia quando dice che quelle proposte furono derise dalla parte dirigente, tanto che il primo piano quinquennale del 1927, che l'opposizione bollò come meschino, si basò su un tasso di incremento produttivo che «doveva variare, seguendo una curva discendente, dal 9 al 4 per cento». I preparatori di questo piano furono poi processati per sabotaggio, ma l'idea della curva discendente non era in teoria economica sbagliata. Tuttavia l'Ufficio Politico stabilì poi il 9 per cento per ogni anno del quinquennio. A questo punto le posizioni, come tante altre volte, improvvisamente si invertono.
Ai primi successi del piano industriale si passa di colpo a sostenere che i ritmi devono salire dal 20 al 30 per cento; dopo sconfitta l'opposizione di Bucharin di cui abbiamo a lungo parlato, e la sua formula del passo di tartaruga, si prese la famosa decisione del «piano quinquennale realizzato in quattro anni».
Alla questione dell'accumulazione di Stato si collegò quella monetaria.
50 - Accumulazione e denaro

La dottrina di Marx sull'accumulazione del capitale ossia sulla sua riproduzione allargata, come quella sulla riproduzione semplice, tratta unicamente di un capitale che appare a cicli alterni come merce e come denaro. Questo è indiscutibile alla partenza ed all'arrivo di tutto il sistema marxista sulla produzione capitalistica: il sistema socialista ne resta dialetticamente definito e descritto, ma sono pochi i socialisti che hanno saputo fare il passo audace che dalla negazione dei caratteri del capitalismo fa emergere, al di fuori di ogni piano utopista, la definizione positiva dei caratteri del socialismo.
Se nel socialismo vi sarà un'accumulazione, essa si presenterà come accumulazione di oggetti materiali utili ai bisogni umani, che non avranno bisogno di apparire alternativamente come moneta e nemmeno di subire l'applicazione di un «monetometro» che consenta di misurarli e paragonarli secondo un «equivalente generale». Quindi tali oggetti non saranno più nemmeno merci e non saranno definiti dal loro valore (di scambio) ma solo dalla loro misura quantitativa fisica e dalla loro natura qualitativa, ciò che si esprime dagli economisti, e anche da Marx a fini espositivi, come valore d'uso.
Si può stabilire fondatamente che i ritmi dell'accumulazione nel socialismo, misurati in quantità materiali come le tonnellate di acciaio o i kilowatt di energia, saranno di aumento lento e di poco superiore a quello dell'aumento di popolazione: rispetto alle società capitaliste mature, probabilmente la pianificazione razionale dei consumi in qualità e quantità e l'abolizione dell'enorme massa dei consumi antisociali (dalla sigaretta alla portaerei) determinerà un lungo periodo di discesa degli indici produttivi, e quindi, nei termini analoghi agli antichi, di disinvestimento e di disaccumulazione.
Qui si tratta solo di esaminare l'accumulazione accelerata che fu necessaria per industrializzare la Russia. Ben presto il «centro» rubò alla sinistra - mentre si disponeva a jugularla, come sempre accade - l'idea degli alti ritmi di incremento. Sarebbe far torto grave all'opposizione russa, così bene impostata sulla questione della rivoluzione mondiale, dire che è stata rubata a lei la «originalità» del ritmo acceleratissimo come carattere di una economia ultracapitalista, o socialista addirittura, che è idea disgraziata e responsabile di immensi mali.
Quello che ci interessa in linea di fatto è che l'avvio all'accumulazione in Russia fu trovato da tutti possibile solo in una forma che si servisse di un mezzo monetario stabile nel valore.
Questa necessità fu enunciata da Lenin in molti scritti da noi studiati, ed in quello suggestivo sulla necessità dell'oro e quindi della moneta legata alla base aurea. Ma in Lenin quello che non si trova è che si tratti di introdurre una forma socialista: egli dice in cento passi che è una forma capitalista, di cui è tuttavia indispensabile provocare l'apparizione in attesa di quel momento famoso in cui si adoprerà l'oro per farne i pubblici orinatoi, dato che resiste bene ai liquidi acidi.
Trotsky accetta questa tesi, che deriva dalla dottrina della Nuova Politica Economica. Dovendo incoraggiare il formarsi del mercato per i prodotti agricoli, e un sistema equilibrato di scambio (naturalmente nascerà poi lo «scambio socialista» con tutto il resto del frasario di tal genere!) fra prodotti della campagna e dell'industria, si impone la riforma del mezzo monetario. Come sappiamo Trotsky chiama questo: impiego di una forma di contabilità capitalista. Egli non intende dire che si usa questa forma di registrazione e di controllo in un'economia già socialista; ma la sua tesi è che si tratti di uno stadio di transizione tra capitalismo e socialismo, nel quale si è costretti ad usare la moneta, legata all'oro, in quanto si tratta di lasciar sviluppare il mercato e la circolazione su scala grande dove questa, per la primitività delle forme agrarie, mancava ancora.
Tutto questo è giusto, in quanto per Trotsky non si tratta di un socialismo di primo stadio, o inferiore, ma di un periodo di trapasso ancora anteriore.
Non sono caratteri economici che gli vietano di rinunziare a parlare, fin che vive (1940), di una Russia socialista, ma il fatto politico che il potere fu conquistato dal partito comunista della classe operaia. Sennonché la situazione del partito e dello Stato sotto anche il profilo politico fu progressivamente invertita e capovolta, e lotte sanguinose, anche se note nell'aspetto unilaterale, dimostrarono un tal fatto.
La formula di Trotsky è questa:
«L'esperienza dimostrò presto che l'industria stessa, benché socializzata, aveva bisogno dei metodi di calcolo monetario elaborati dal capitalismo» (278).
Trotsky fa salva la giusta sua valutazione marxista dei traguardi del piano russo di accumulazione industriale, quando dice:
«Lo stadio inferiore del comunismo - per usare il termine di Marx - comincia al livello, a cui il capitalismo più avanzato si è avvicinato. Ora, il programma reale dei prossimi piani quinquennali delle repubbliche sovietiche consiste nel «raggiungere l'Europa e l'America»» (279).
Dunque nel costruire un capitalismo sviluppato. Ma per superarle il socialismo le dovrà conquistare con la forza, non con l'emulazione!
Notes:
[prev.] [content] [end]
273. Apparso nel nr. 5/1957 de «Il programma comunista». [back]
274. Allo studio ulteriore degli sviluppi dell'economia agraria e industriale russa sulla traccia fondamentale data nei paragrafi precedenti e in quelli successivi furono poi dedicate di anno in anno nutrite riunioni. Citiamo solo, fra le più vicine in ordine di tempo alla «Struttura», «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», ne «Il programma comunista» nr. 16-17 e 22-24/1957, 1-2 e 7-10/1958 e 1-7/1959, «Putrescente degenerazione della forma capitalistica ad Occidente, corso sciagurato della sua controfigura di Oriente», ivi, nr. 23 del 1958, e «La struttura economica e sociale della Russia e la tappa involutiva del trasformismo al XXI Congresso», nr. 9-18 del 1959, dove il lettore troverà ampi aggiornamenti di dati e raffronti con le economie occidentali. Tutte le annate successive dovrebbero però essere consultate numero per numero. Si veda infine la già citata «Appendice», più oltre. [back]
275. 19-20 gennaio 1957 sul tema: «Struttura economica e corso storico della società capitalistica». Rapporto esteso e codicilli ne «Il programma comunista», nr. 3.5.1957. Per un riepilogo fino ad oggi, cfr. i nr. 1-2, 4-5 del 1976. [back]
276. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 54. [back]
277. Per la verità, in seno all'opposizione, soprattutto in Preobragenski, vi furono teorizzazioni in questo senso, e lo stesso Trotsky, sia pure con molte oscillazioni, non vi fu estraneo (cfr. il già citato Bilan d'une révolution) in un dibattito in cui i problemi politici ed economici si intrecciavano in modo disorientante per gli stessi interlocutori. [back]
278. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 48. [back]
279. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 74. [back]
SOURCE: «IL PROGRAMMA COMUNISTA», N. 5, FEBBRAIO 1957

APPENDICE ALLA «STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI»

[Appendice]

Content:
Appendice alla «Struttura economica e sociale della Russia d'oggi»
Passo accelerato delle riforme economiche a ritroso fra il XX e il XXI Congresso del PCUS
I
Le «riforme» postrivoluzionarie
Le antiriforme di oggi
Dalla proprietà statale alla proprietà aziendale
L'antiriforma agraria
Degna conclusione
II
Politica economica russa
Il nuovo volto del piano
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Notes
Source

Passo accelerato delle riforme economiche a ritroso fra il XX e il XXI Congresso del PCUS

Riteniamo opportuno far seguire come appendice integrativa alla «Struttura economica e sociale della Russia d'oggi» due brani di commento alle riforme economiche varate fra il XX e il XXI congresso del PCUS, in campo industriale e in campo agricolo, sulle linee di tendenza indicate e previste nel loro ulteriore sviluppo - da questo fondamentale testo di partito: autonomie regionali ed aziendali; smantellamento delle stazioni di macchine e trattori; riduzione dello stesso piano economico centrale a semplice quadro indicativo, non collegato al precedente né fisso; esaltazione delle forme più tipiche dell'economia mercantile; con tutti i riflessi politici e sociali che ne conseguono all'interno e nei rapporti internazionali. Quanto è avvenuto dopo, non è che una con/erma ed un prolungamento del trend di allora.
I due brani risalgono, rispettivamente, al rapporto alla riunione di partito del 20 e 21 settembre 1958 tenuta a Parma (in «Il programma comunista», n. 18-22 di quell'anno) su «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato», e a quello svolto alla riunione della Spezia del 25-26 aprile 1959 (in «Il programma comunista», nr. 9-18 di quell'anno) su «La struttura economica e sociale della Russia e la tappa del trasformismo involutivo al XXI Congresso».
I
Le «riforme» postrivoluzionarie

[...] Nella polemica con gli anarchici Lenin, e noi sinistri con lui, e caso mai più e non meno di lui, avevamo spiegato che per espellere dalla politica della lotta di classe ogni «gradualismo» equivoco (che vale democratismo, culturismo, elettoralismo, parlamentarismo ed altri insetti) era di mestieri ammettere che nella economia del trapasso dalla struttura capitalista a quella socialista si dovevano prevedere e predisporre gradazioni nel tempo, lasciando agli anarchici l'idea assurda e disfattista che in uno stesso giorno potesse essere rovesciato il potere borghese e messa in funzione un'economia collettivista
Solo con questa dimostrazione si stabilisce la necessità inderogabile della dittatura rivoluzionaria, chiara dal tempo del «Manifesto dei Comunisti» nel sistema marxista, definita in questo stesso con le parole inequivocabili di intervento dispotico nei rapporti produttivi borghesi; e nelle «Lotte di classe in Francia» con le parole messe sulla bocca dei combattenti di Parigi, 1848: Abbattimento della borghesia! Dittatura della classe operaia!
Mentre quindi si può a buon diritto, come i marxisti radicali fecero per mezzo secolo, provare che anche economicamente e tecnicamente le riforme che hanno per attore un governo borghese non hanno mai il carattere di una fase gradata di sostituzione dei caratteri economici capitalistici con quelli socialistici, è sana teoria spiegare che negli atti del governo post-insurrezionale si attuano, in una serie gradata che può avere scale variabilissime, le misure di imperio che si possono correttamente definire leggi dello Stato e se si vuole riforme sociali (facendo grazia dell'odierno termine corbellatore di riforme di struttura) nelle quali si concreta la trasformazione del modo di produzione. Questi sono effettivi passi storici per cui dalle forme predominanti nel paese ove si è conquistato il potere si passa a quelle socialistiche, anzi più generalmente a forme più avanzate di quelle dominanti [...]
Le antiriforme di oggi

Le trasformazioni russe «di struttura», che sono seguite al XX Congresso e sono presentate ed esaltate dall'odierno Comitato centrale del PCUS e dalle discorse di Kruscev e pochi altri, si chiamerebbero meglio riforme di rinculo, leggi di Stato per passare da forme più o meno lontane dal capitalismo pieno a forme più vicine ad esso.
Le riforme chieste ai governi parlamentari dai socialisti legalitari della fine dell'ottocento erano una rispettabile illusione, e se non fossero servite da diversivo politico alla impostazione della esigenza della conquista del potere, può darsi che avessero anche un senso positivo; come in corretto marxismo (sia pure ammesso che è qui un punto dialetticamente difficile) lo furono le misure di limitazione della giornata di lavoro o dell'età di lavoro, in quanto chiarivano che la emancipazione del proletariato non era questione di contratto economico immediatista, bensì di potere e di maneggio del potere politico.
È indubbio che un'economia con giornata di otto ore è più vicina alla forma socialista di quella a giornata di dieci ore, pure restando nei confini salariali e mercantili da cui solo con il saltus politico si uscirà un giorno; ed è certo che Lenin e anche Stalin hanno promulgato di queste riforme in Russia, e alle stesse tocca il segno positivo.
Ma le riforme successive a Stalin e al 1956 sono riforme alla rovescia, di segno negativo, e svelano la tendenza al ritorno al pieno capitalismo non più dissimulabile, e sempre più «confessato».
Il vecchio riformismo socialista, malgrado il suo basilare errore di prospettiva, esce da questo confronto in parte riabilitato. La espressione di riforma, che i russi danno a quanto stanno perpetrando nella struttura economica e sociale interna dal XX Congresso, prende un sapore di tragica ironia.
Una delle trasformazioni consiste nella introduzione dell'autonomia regionale economica che ha decentrato molte funzioni prima attribuite al centro statale, sia come pianificazione generale della produzione, sia come direzione di essa, che dai ministeri di Mosca è stata passata ai Sovnarcos o consigli economici industriali regionali. Questa misura drastica e quasi improvvisa (ma evidente conseguenza di una lunga preparazione ed evoluzione anche involontaria) rendeva evidentemente assurdo il tentativo di sfuggire alle critiche jugoslave contro i pretesi pericoli dell'accentramento, e porgeva il fianco all'argomento insidioso che l'accentramento statale dell'economia aveva generato quello politico, fino al dispotismo personale, argomento che non è difficile ai vari opportunisti di truccare di marxismo.
Dalla proprietà statale alla proprietà aziendale

Nella legittima serie di Marx-Lenin è passaggio positivo quello che va dalla proprietà aziendale (privata o cooperativa non importa) alla proprietà statale, perché vale passaggio dal capitalismo privato a quello di Stato, e solo dopo questo segue storicamente e socialmente quello da capitalismo di Stato a socialismo, sia pure di grado inferiore nel senso di Marx (Gotha). A proposito del XX Congresso, provammo che carattere di tale passaggio è la fine della legge del valore, dell'economia di mercato e della moneta.
Sarà forse la immancabile confessione teorica (per quanto è dato a falsari cronici della dottrina) che materierà il prossimo XXI Congresso del PCUS, a consentirci di erigere la prova che la riforma Kruscev - che questi sfacciatamente vanta allo stesso tempo come un passo al socialismo superiore o comunismo integrale, e come un passo alla democrazia dal basso! - è una discesa dello scalino di Lenin dal capitalismo di Stato in direzione opposta al socialismo perché dalla dimensione Stato si decade alla dimensione centrifuga regione prima, e subito dopo alla dimensione azienda.
I russi si contraddicono dicendo da un lato: «non abbiamo voluto creare qualcosa che rassomigliasse ai consigli di produzione jugoslavi perché questi si ispirano ad una concezione sindacalista che noi non condividiamo» e dall'altro ammettendo nello stesso testo (Pospielov) che «le nuove forme di direzione hanno accresciuto il ruolo della classe operaia nella direzione dal basso con un nuovo fermento di attività che caratterizza i sindacati, i quali attraverso le assemblee permanenti di produzione hanno assunto una funzione determinante nella guida dell'economia». Abbiamo qui un esempio delle due parti in commedia: ostentata sensibilità teorica, e manovra pratica bassamente rinculatrice. Un democratico, un libertario o un sindacalista possono plaudire a quelle frasi (se sono di bocca tanto buona da crederci) ma la valutazione marxista è quella della scala discesa e non salita.
Con la riforma non solo i Sovnarcos, ma le fabbriche, trattano tra loro i prezzi di vendita e di acquisto, e ovviamente fanno i piani di produzione. I 33 ministeri aboliti con grande chiasso per «creare» le 92 regioni economiche amministrative, in modo che «le imprese dipendano da queste e non dal centro» anche per i pochi ministeri unitari (Guerra, ecc., «Unità» 2 giugno 1957), hanno per conseguenza, vantata nelle tesi di Kruscev (30 marzo 1957), che vi saranno
«legami contrattuali diretti tra aziende produttrici ed aziende consumatrici».
La frase è gettata lì come fosse una cosa innocente. Ma la giustificazione che ne segue vale un completo trattato dal titolo «Superiorità dell'economia di mercato sull'economia socialista». La frase è questa:
«quale forma più opportuna e vantaggiosa economicamente di approvvigionamento dei materiali e di smercio della produzione».
Dopo questi capolavori di dottrina del «marxismo-leninismo» nessun stupore circa l'apologia, che si desume da questo e altri testi anche per l'agricoltura, dei prezzi «economici», che finalmente sono stati «scoperti» ed applicati, abbandonando la pianificazione centrale dei prezzi (che non è il socialismo, rappresentato dalla abolizione dei prezzi, ma era un passo in quella direzione).
Stalin si arrabattò nei «Problemi», dopo avere richiamata in vigore la legge del valore per tutti gli scambi di oggetti di consumo (derrate agrarie e manufatti industriali finiti) a condannare chi chiamava merci anche i prodotti dell'industria statale aventi carattere di beni strumentali, ossia di materie semilavorate e macchine. Nella danza dei sette veli, anche questo oggi cade ai piedi di Salomé-Nikita! Da azienda ad azienda e da provincia a provincia, anche i beni che non hanno carattere di consumo diretto saranno contrattati e pagati. Nel capitalismo di Stato tutta l'industria ha un bilancio unico (sebbene già Stalin avesse fatto larghe concessioni al principio di «redditività» delle singole fabbriche) e non ha importanza se una macchina o una scorta di semilavorati passa da una azienda all'altra senza contropartita in denaro. Oggi, dopo lo scalino disceso, tutti i generi, non solo quelli del consumo personale e familiare diretto, circolano con un contratto di scambio e contro moneta; e il cadavere di Stalin ha di che arrossire.
L'antiriforma agraria

[...] Nel campo agrario la riforma rinculante principe è stata la liquidazione delle stazioni statali di macchine e trattori, con la vendita di questo capitale di Stato ai privati colcos che lo hanno pagato in denaro, senza poter nascondere un enorme vantaggio con questo arrecato ai grandi colcos rispetto ai minori.
I discorsi e rapporti di Kruscev su questo tema sono una miniera di prove della accentuazione decisa delle forme borghesi. Stalin nei «Problemi», se aveva scartata l'idea di espropriare i colcos, ossia passare dalla proprietà cooperativa a quella statale delle imprese agricole, aveva però condannata l'abolizione delle SMT proprio provando che significava rendere (da statale) privata appunto la parte maggiore e più concentrata del capitale di intrapresa agraria. Ciò avrebbe significato, come oggi significa, togliere un vasto settore alla proprietà dello Stato, chiamata proprietà di tutto il popolo (?!), passandolo a proprietà di dati gruppi rurali. Oggi questi hanno ricevuto ben altre agevolazioni, come la soppressione dell'obbligo di conferire derrate agli ammassi di Stato a prezzi di imperio, consegna abolita per i colcosiani singoli e sostituita per i colcos da «liberi contratti a prezzi economici». Dai testi di Kruscev (non è al solito il nome che importi, ma l'indirizzo, di cui è meno facile che due anni fa trovare un collegio di antesignani!) si possono trarre infinite citazioni che mostrano come questa misura o riforma sia supremamente antisocialista.
Come teorico Kruscev vale quanto Stalin. La situazione prima della riforma di vendita delle SMT viene criticata per il fatto che sulla terra vi erano due padroni (!) ossia il colcos che disponeva della forza lavoro dei suoi soci e del capitale derrate e bestiame, e la SMT che disponeva del capitale macchine. Si tace che vi era un terzo padrone, lo Stato che si proclamava proprietario della terra, data al colcos in perpetuo usufrutto [...].
Quale il vantaggio di avere mandato via uno dei due padroni del capitale di impresa agraria? Ve ne sarebbe stato uno se si fosse mandato via il padrone privato rispetto a quello delle macchine, che era «tutto il popolo». Facendo il contrario si è favorita l'accumulazione non statale del capitale e si è obbedito allo squisito principio borghese di un solo padrone, reazionario forse per la stessa forma capitalista: il principio «pas de terre sans seigneur», opposto a quello mercantile: «L'argent n'a pas de maitre» (Non vi è terra senza padrone - Il denaro non ha padrone).
Tutto questo movimento riformatore sposta a danno della classe salariata industriale (e del sovcos) tutto il rapporto sociale. Il consumatore russo paga a prezzi favolosi frutta e ortaggi, perché ai signori colcos costano molto. Il rimedio kruscioviano è lasciare che nei colcos si produca solo per consumo diretto, vera economia patriarcale, e far produrre ortaggi e frutta per le città solo ai sovcos, finché queste aziende schiaviste quanto le fabbriche saranno tenute in piedi.
Degna conclusion
Qual meraviglia fanno dunque gli inviti ai capitalisti dell'estero per venire a fare buoni affari, non con lo Stato, ma con le contrattanti autonome aziende locali? Limitiamoci ad alcuni gioielli dell'arte del sedurre.
«Se uno scienziato o un ingegnere non condivide le vedute e le convinzioni politiche comuniste, conservi pure le sue opinioni, e venga da noi come specialista chimico, come scienziato. Se egli vuole effettivamente ottenere risultati migliori nel suo lavoro, gli offriamo la piena possibilità di farlo: lo pagheremo meglio di come lo pagano le ditte ed i cartelli più ricchi».
«Se qualcuno ha ancora nel cervello certi bacilli che impediscono di assumere fermamente la posizione del riconoscimento della necessità di trasformare la società secondo i principii del comunismo, si tenga pure per qualche tempo la sua mallatìa. Noi lo pagheremo bene, gli daremo una buona retribuzione, la villa in campagna, ecc.» (discorso 8 luglio 1958 al Congresso elettro-chimico di Bitterfeld, Germania est).
«A molti di loro non interessano le idee politiche, sono attirati più dal business, come dicono gli americani. Paghiamoli bene, dunque; più di quanto li pagano gli americani, più di quanto li pagano a Bonn...». «Dopo di aver lavorato con noi si convinceranno realmente che il socialismo è il regime sociale più progressivo e il comunismo è il luminoso avvenire sognato dall'umanità» (!).
(Chi credesse a un nostro scherzo confronti il vol. n. 7 del 26 agosto 1958 dell'ufficio stampa dell'Ambasciata dell'URSS in Italia).
«In questi ultimi tempi il nostro governo ha avuto dai paesi occidentali molte proposte di grandi ditte che vorrebbero fornire attrezzature, ecc. Noi stiamo ora studiando queste proposte, per concludere buoni affari».
Ed ora questo soltanto:
«Bisogna necessariamente garantire all'imprenditore capitalista una adeguata percentuale di guadagno».
Babbo Carlo si divertiva a citare Dante. Qui, prima di andare avanti, va messo:
«E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni».
II
Politica economica russa

[...] Mentre quell'incendio internazionale (304) era spento in un lago di sangue, senza che si vedesse giustiziare nessun agente di occidente, e sola sua conseguenza era di aumentare nelle file proletarie lo smarrimento che ha la forma di nostalgia idiota verso le forme e i procedimenti democratici (questo smarrimento rende più aspra la via per il ritorno al partito rivoluzionario, ed è vile compenso che sgretoli un poco i partiti affiliati a Mosca, che pagano il prezzo di aver seminato e coltivato a piene mani quelle idiozie democratiche parlamentari e tollerantesche), cose di altro campo ma parimenti gravissime accadevano in Russia.
Veniva smontata - senza che questo fosse fatto prevedere dai milioni di parole del congresso - tutta la macchina centrale della gestione economica di Stato; che non è il socialismo, ma può in date condizioni di sviluppo storico essere una strada verso di esso. Ai centri statali che si assommavano nei ministeri della Unione e negli organi del piano economico unitario per tutte le repubbliche, si sostituiva in modo non chiaro e brutalmente improvviso (che si spiega solo se di qualche cosa sia avvenuto un crollo improvviso) una rete di nuovi ganglii locali, che venivano gradatamente annunciati. Le repubbliche nazionali (era un primo passo) ma diverse, e sopra tutte la RSFSR, sono troppo vaste, ed allora si giunse all'elemento regionale, e si considerò come organo economico massimo il Sovnarcos, consiglio della economia regionale, a cui fu demandata la pianificazione nel territorio e la gestione di tutte le aziende che prima erano dello Stato, o con la comoda dizione antimarxista «proprietà di tutto il popolo». Popolo significa insieme interclassista, e vada, ma insomma popolo dell'URSS, della RSFSR, della regione, di un gruppo di governatorati o di province? Fu presto chiaro che questa tra le «riforme di struttura» che ci fecero parlare di un riformismo alla rovescia (rinculatore, gambero, arretratore rispetto a quello famoso del 1900 che sognava di andare avanti adagio) nella sua corsa al decentramento e verso la formula periferica e centrifuga, non si arrestava prima della unità azienda, in pratica e teoria identica alla azienda borghese di tutti i paesi. Le aziende, disse il capintesta Kruscev, faranno i loro piani trattando tra loro (anche al di sopra dei confini di Sovnarcos) i loro affari di acquisto e di vendita. Facendolo a prezzi liberi di contratto lo faranno nel modo più economico. Il modo più economico è quello di maggior vantaggio per la collettività sociale e nazionale. Si è mai parlato un linguaggio più borghese di questo?
Mentre così veniva riformato il settore industriale, cose non meno sensazionali avvenivano per l'agricoltura. L'eresia trionfante uccise uno dei membri della sacra Trinità, che coi colcos e i sovcos formavano sotto Stalin le stazioni statali di macchine e trattori. Un vero (direbbe Marx) peccato contro lo Spirito Santo, per il quale il prete non ammette perdono. Si fece di peggio che gettare un idolo giù dall'altare. Le macchine furono svendute ai colcos, il che in parole comuni significa che «tutto il popolo» le vendette a certi «gruppi del popolo». Fu un fatto economico, è chiaro, perché mercantile. Chi fece l'affare?
Una vecchia regola della economia di mercato sta a provarci che in questo caso i meno fregano sempre i più. Ma non solo in questo i colcos e quindi i contadini in essi associati ebbero vantaggi, a parte dilazioni ampie nel pagare le macchine a... Pantalone in rubaschka. Vi fu la liberazione da ogni consegna di derrate in quantità fissate dai piani e a prezzi di stato. Da quel tempo in poi lo Stato approvvigiona le città solo in base a liberi contratti mercanteggiati con le cooperative rurali. Mentre il colcos si svincola così sempre più dallo stato centrale, il contadino colcosiano si svincola dal suo colcos, se pure questo lo paga meglio per le sue ore di lavoro sui campi e con le macchine comuni, e recenti notizie lo hanno dimostrato lucidamente circa il diritto del contadino e della sua azienda familiare di comprare o vendere bestiame senza permesso del colcos.
Se il colcos era ieri una cooperativa privata di usufruttuari della terra nazionale, oggi che ai suoi fondi pecuniari indivisibili ha aggiunto il macchinario (capitale scorta morta, strumento di produzione), esso diviene sempre più una società privata capitalistica sul cui capitale lo Stato non ha diritti, né ha controlli maggiori che negli stati borghesi.
Il nuovo volto del piano

Dopo queste innovazioni che tutte procedono nel senso che volgono le terga al capitalismo di stato e procedono verso il capitalismo privato (con che si vuol dire che il capitalismo di stato non è socialismo, è certo; ma è anche certo che con queste riforme le terga sono volte al socialismo) il XX congresso doveva condurre la sua battaglia nella prova che l'economia russa batte in velocità quella occidentale e soprattutto americana. Ma non doveva dire che questo era ottenuto, in quanto ancora ottenibile, non più grazie ad una pretesa differenza nel metodo di gestione (essa si riduceva al misero principio della statizzazione industriale) ma grazie al salvataggio ottenuto con l'adozione di una serie di misure imitative della gestione a stile occidentale.
Non è solo il riformismo che tenta di andare non dal capitalismo al socialismo, bensì in direzione contraria, ma si tratta addirittura della famosa emulazione. Essa è gloriosamente in piedi da un congresso all'altro; nel XX era l'America che doveva emulare la Russia - nel XXI è la Russia che si lancia ad emulare la borghese America.
Nel XX congresso a fianco delle vanterie sull'aumento della produzione (Kruscev) vi era un nuovo piano (Bulganin). Oggi il piano centrale statale è morto, non vi è più piano quinquennale, non vi è più continuità tra il piano chiuso e quello che s'apre. Quello che dobbiamo studiare è un surrogato di piano. Non è più un programma di gestione ma una qualunque previsione statistica, una misera inchiesta tra esperti, all'americana, emulativamente.
Non è più quinquennale, come nei tempi d'oro, ma settennale. Avrà Nikita Kruscev visto in sogno le sette vacche magre?
Non è più continuo con la fine del vecchio piano, ma lascia un vuoto di tre anni, dal 1955 al 1958 (o più esattamente per gli anni 1956, 1957, 1958). Un triennio in cui l'industria ha sonnecchiato, mentre l'agricoltura è addirittura caduta sotto un incubo.
Una sola pianificazione continua imperterrita: quella della menzogna. Che tra concorrenti si mentisca è buona norma, e non ci importa affatto che si spaccino menzogne al mondo o alla opinione mondiale, bassamente borghese.
Ma la menzogna è diretta anche al proletariato. Se quindi il piano non è più piano, non è più quinquennale, non è più consecutivo, ciò non ci distoglie dal compito di dimostrare quanto esso è bugiardo (305).
Notes:
304. Si allude alla rivolta ungherese del novembre 1958. [back]
305. Come appunto si fece nel seguito del rapporto. [back]
SOURCE: «STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D'OGGI», EDIZIONI IL PROGRAMMA COMUNISTA, MILANO 1976

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