MAI LA MERCE SFAMERA' L'UOMO
VI. METAFISICA DELLA TERRA CAPITALE
Da 1884 a 1847
Non ci vogliamo contentare di sostenere come ultima parola sulla teoria dell'economia agraria quanto Marx scrisse negli ultimi tempi della sua vita, sia nel terzo che nel quarto volume dell'opera sua maggiore incompiuta.
Questa teoria ha forma definita fin da quando si forma il blocco a contorni precisi e netti della dottrina rivoluzionaria, ossia da alcuni anni prima del Manifesto divulgato nel 1848.
E infatti lo stesso Marx ce lo conferma, a ennesima mortificazione di quelli che hanno sempre sostenuta la natura di "continuo cangiamento" nel metodo marxista in genere e negli studi di Carlo Marx in ispecie. E sì che ve ne furono (e non ve ne sono) di non fessi. Intendiamo dire con questa frase un po' articolata che ve ne sono anche oggi ma son tutti fessi.
Dei defunti ricordiamo Tonino Graziadei, che sapeva il fatto suo (se negli ultimi anni lo avevano ridotto, nel partito di princisbecco, a consulente bibliografico e dottrinale della gran Direzione militante). Egli ha seguitato, da quando era riformista destrissimo a quando si rivelò comunista e da professore poi sempre (come sorrideva contento un giorno a Berlino, quando narrava di avere avuto facile varco alla frontiera declinando la qualità: "Universitäts-Professor!..." a un doganiere che certo avrebbe sbarrato il passo a Carlo Marx in persona!), anche durante il "Ventennio", a stampare un libro all'anno per provare che il terzo volume del Capitale aveva demolito pezzo per pezzo le prime dottrine economiche e soprattutto quella sul plusvalore, essendo poi quella sulla rendita (a dir del Tonino) una inutile esercitazione letteraria...
Alla fine del terzo volume della Storia delle dottrine, nell'interessante paragrafo di confronto tra Rodbertus e Ricardo, Marx ad un certo punto, stanco forse di citare le "bevute" del primo, esclama: "Ho già chiarito in modo completamente [sic!] esatto la moderna rendita fondiaria". E a pie' di pagina cita la Misère de la Philosophie, edita a Parigi nel 1847.
Quella fondamentale opera, a cui tante volte abbiamo fatto ricorso, prendendo a punto di partenza gli scritti economici di Proudhon, rappresenta la prima esposizione organica dell'economia marxista e dei principi fondamentali del determinismo dialettico, mentre il Manifesto compilato pochi mesi dopo stabiliva su fondamenta irrevocabili la parte storica e politica.
Non meno spesso abbiamo notato che l'abbattimento dalla base della costruzione proudhoniana fa epoca, in quanto vale a far piazza pulita di innumerevoli e molto posteriori deviazioni che si sono schierate lungo un secolo a cavallo degli stessissimi errori e degli stessi disonoratissimi ismi, di cui torniamo a rammentarvi la serie: ideal - moral - egualitar - liber - liberal - libertar - individual - personal - soggettiv - mercantil - aziend - ISMO.
Ciò venne sottolineato magistralmente da Engels nella sua prefazione del 1884 (dunque dopo 37 anni), da cui anche abbiamo altra volta tratto ottime formule sintetiche per cardinali posizioni, pur con la avvertenza che la terminologia non è ancora quella più elaborata del Capitale, in quanto si parla di valore e di prezzo del lavoro, anziché della forza di lavoro, trattata nella economia salariale (ergo: capitalistica) come una merce.
Economia, morale, logica
Non a caso abbiamo detto che nella critica a Proudhon sono messi a fuoco anche i problemi correntemente detti filosofici. Il caustico proemio ben noto deride l'autore che passava in Francia per un grande filosofo tedesco, in Germania per un grande economista francese.
E' proprio quando passa a trattare il nostro presente argomento, ossia la proprietà agraria e la rendita, che il Proudhon se ne esce così:
"L'origine della rendita come della proprietà è per così dire extraeconomica: essa risiede in considerazioni di psicologia e di morale che riguardano solo molto da lontano la produzione delle ricchezze".
Di qui si vede come si stia sulle due sponde dell'abisso. Dobbiamo aiutarci con i dati della scienza psicologica e della scienza (?) morale per chiarire processi economici? E non, all'opposto, brandire la solida chiave del materialismo storico e chiarire con i dati economici le manifestazioni "psicologiche" e gli innumerevoli sistemi di morale?
Quando Marx passa a trattare del dichiarato "metodo economico-metafisico", egli sfotte l'avversario per aver voluto far paura ai francesi, gettando loro sul viso delle frasi quasi hegeliane. Marx ha l'aria di dire: noi abbiamo ben oltrepassato Hegel (forse qualche lettore ricorda la citazione della nota al terzo volume del Capitale [capitolo 37], in cui la definizione data da Hegel della proprietà quale atto di forza e di volontà della persona umana o, come si riecheggia oggi ancora ad ogni passo, prolungamento della persona stessa, è trattata da "nulla di più comico"), ma voi che tanto lo orecchiate, non lo avete mai conosciuto e capito... Ed infatti il testo diceva:
"Noi non facciamo una storia secondo l'ordine dei tempi [ohibò... sarebbe filotempismo], ma secondo la successione delle idee. Le fasi o categorie economiche, si manifestano talvolta contemporaneamente, talvolta no. Ciò nondimeno, le teorie economiche hanno la loro successione logica e una loro serie nell'intelletto".
Il passo che segue in Marx, utilizzato e da utilizzare ancora in sede di teoria della conoscenza e del pensiero, non liquida solo la parolaia economia di Proudhon, ma mette fuori causa la ragion pura di Kant come la metodologia di Hegel, come uno "spogliarello" che facendo successiva astrazione da tutti gli oggetti e dai loro reali rapporti, lasciando cadere tutti i loro pretesi accidenti, riduce tutto il moto e la vita del mondo reale alla nudità, più che nudità, vacuità, della categoria logica, vivente solo nella ragione; al metodo assoluto che a tutto preesiste.
"Essendo ogni cosa ridotta a una categoria logica, e ogni movimento, ogni atto di produzione, al metodo, ne segue naturalmente che ogni complesso di prodotti e di produzione, di oggetti e di movimento, si riduce a una metafisica applicata. Ciò che Hegel ha fatto per la religione, il diritto, ecc., il signor Proudhon tenta di farlo per l'economia politica".
Nella critica di Marx e di Engels ai loro contraddittori troviamo sempre un doppio aspetto. Costoro ad ogni passo vantano di avere "scoperto" nuove leggi e verità. Ed allora si prova che, in quanto si tratta di osservazioni e teorie esatte, le stesse erano già state enunciate molto prima da economisti che si appagavano del serio metodo "descrittivo e storico" di solito disprezzato dai novatori, in quanto costoro hanno davvero detto cose originali, si dimostra che novantanove su cento si tratta di madornali errori, di travisamenti della realtà, di deduzioni arbitrarie uscite fuori da vuote costruzioni metafisiche e puntellate su dogmi banali della cultura corrente e su mozioni sdolcinate degli affetti.
Il rinvio di Proudhon alla psicologia, alla morale e all'ordine delle idee, il suo curioso esaminare di ogni processo economico (concorrenza, monopolio, divisione del lavoro, macchinismo, credito, imposte, ecc.) il lato buono e il lato cattivo, è espediente ormai secolare: ma che sentite di diverso in ogni esposizione, magari datata gennaio 1954, di economisti, sia dilettanti che di mestiere? Se la stretta analisi scientifica mostra il venire di un cedimento nella struttura economica, se ogni esame di fatti viene a rendere dubbio che possa, a mo' di esempio, scongiurarsi la sopravveniente crisi sia col liberare da controlli ed arginamenti le iniziative economiche, private e aziendali, sia col rafforzare il dirigismo e l'intervento dello Stato, quale il rifugio? Il ricorso alle forze dello spirito, all'azione degli uomini probi e di buona volontà, e simili piacevolezza. E non diversamente nel campo opposto il riferire la ripresa della forza rivoluzionaria di classe a ritorni della coscienza: ovunque nei due campi, antimarxismo e sottomarxismo, ossia il rifiuto di vedere negli atteggiamenti mentali il risultato e riflesso determinato dalla materialità del processo economico.
Giù, libero arbitrio, pagliaccio idiota!
Partendo per il suo periplo nell'economia metafisica, anche Proudhon salpa dal porto della realtà e prende una rotta da tempo additata da veri esploratori: stabilisce la distinzione tra il valore di uso e di scambio di ogni oggetto e tenta fondarvi una teoria dei fenomeni del mercato. Non ha ancora evocato mistiche potenze, ma si smarrisce lo stesso per avere trascurato due punti essenziali: la genesi e lo svolgimento storico dello scambio nelle varie epoche, da un lato, il carattere sociale e non individuale del rapporto, dall'altro. E quindi va ad insabbiarsi.
Gli economisti moderni non sono di una spanna più oltre. Supposto un compratore, spinto dal bisogno di fornirsi, poniamo, di patate e un venditore che colloca patate contro denaro, si domandano come spiegare la cifra della transazione. Il primo pensa al valore di uso, al bisogno che lo preme di mangiare, il secondo al valore di scambio, ossia al massimo ricavo di denaro dalle sue patate. Tutto lo sforzo per riportare il problema un po' fuori del semplice duetto e far comparire almeno in secondo piano la società, la collettività economica, si riduce alla famosa regoletta ("verità che diremmo quasi banali", scrive Marx) dell'offerta e della domanda. Il prezzo scende se vi sono molte patate e scarso appetito di patate, sale se le patate son poche e molti gli appetenti.
Assimilando allora l'abbondanza al valore di uso, il nostro autore chiama questo valore di utilità; e la scarsezza al valore di scambio, lo chiama valore di opinione. E si domanda se tra queste due opposte potenze può stabilirsi un punto di comparazione. Ed egli ne trova infatti uno, l'arbitrio:
"Nella mia qualità di libero compratore, io sono giudice del mio bisogno, giudice della convenienza dell'oggetto, giudice del prezzo che io voglio sborsare. D'altra parte nella vostra qualità di produttore libero voi siete padrone dei mezzi di esecuzione e, di conseguenza, avete la facoltà [?] di ridurre le vostre spese".
"E' dimostrato che il libero arbitrio determina l'opposizione tra valore d'uso e valore di scambio. Come risolvere questo contrasto finché esisterà il libero arbitrio? E come sacrificare quest'ultimo a meno di non sacrificare l'uomo?".
Qui Marx esamina le cose più da presso e da par suo. L'offerta e la domanda sono contemporaneamente da ambo le parti, nel contratto mercantile, e si confrontano due valori entrambi di scambio:
"Il prodotto che viene offerto non è l'utile in sé Nel corso della produzione esso è stato scambiato contro tutte le spese della produzione: materie prime, salari degli operai, ecc., cose tutte che sono valori venali. Il prodotto rappresenta dunque agli occhi del produttore una somma di valori venali (...).
Quanto alla domanda essa sarà effettiva solo a condizione di avere a sua disposizione dei mezzi di scambio. E questi stessi mezzi sono dei prodotti, dei valori di scambio".
Nell'ipotesi del Proudhon siamo in una società fondata sulla divisione del lavoro e sugli scambi. Ora i mezzi di produzione non dipendono dal libero arbitrio del produttore, sono in gran parte prodotti che gli vengono da fuori... Il consumatore non è più libero del produttore, la sua opinione riposa sui suoi bisogni e sui suoi mezzi, che gli vengono dalle sue condizioni sociali, dipendono dalla organizzazione sociale:
"Sì, l'operaio che acquista delle patate e la mantenuta che compra dei merletti, seguono l'uno e l'altra le loro rispettive opinioni. Ma la diversità di queste si spiega con la differente posizione che occupano nel mondo, la quale è il risultato dell'organizzazione sociale (...)".
Il signor Proudhon "spinge l'astrazione fino al limite estremo, fondendo tutti i produttori in un solo produttore, tutti i consumatori in un solo consumatore, e stabilendo la lotta fra questi due personaggi chimerici (...)". "In che consiste, quindi, tutta la dialettica del signor Proudhon? Nel sostituire al valore d'uso e di scambio, all'offerta e alla domanda, nozioni astratte e contraddittorie, quali la rarità e l'abbondanza, l'utile e l'opinione, un produttore e un consumatore, entrambi cavalieri del libero arbitrio".
Facciamo un fascio di tutti i moderni economisti che fabbricano formule sulla determinazione del prezzo fondata sulle forze in movimento sul mercato: ofelimità, utilità marginale, velocità di circolazione, volume di circolante, quantità di beni da consumo, ecc. e seppelliamoli sotto questa lapidaria frase: cavalieri del libero arbitrio, nella cappella gentilizia di famiglia Proudhon.
Un medico, un banchiere, un professore
Nei precedenti "fili" abbiamo deliberatamente insistito sul molto lavoro fatto da Marx intorno al Quadro economico di Quesnay. Ed abbiamo rilevato il motivo essenziale che mette in alto il Quesnay, di tanto predecessore degli economisti del capitalismo: egli è molto più avanti dell'atto di scambio "molecolare" e della puerile personificazione delle forze economiche. Non l'uomo venditore e l'uomo compratore, ma il gioco della circolazione della ricchezza tra la classe produttiva, la classe redditiera e la classe (a suo credere sterile) dell'industria.
Ed abbiamo fatto il confronto, alla luce del marxismo, tra Quesnay e Ricardo, come massimi esponenti di scuole economiche, mostrando che l'enorme vantaggio del primo per la scoperta dei protagonisti-classi sorpassa quello che segna l'inglese quando stabilisce la portata della produzione industriale e il formarsi anche in essa della plusvalenza nell'impiego dei salariati.
Altra volta poi indicammo i diversi contributi che le scuole delle grandi nazioni dettero alla critica borghese del mondo feudale, di tal che le rivoluzioni borghesi furono, nel comune carattere di classe, a netta sagoma nazionale. La Germania dette la Filosofia, l'Inghilterra l'Economia, la Francia la Politica, atte al tempo e al modo capitalista di produzione.
Come la lotta di classe proletaria si incardina all'inizio sull'intervento nelle rivoluzioni borghesi nazionali (ancora una formulazione in queste stesse pagine di un concetto che tuttavia non pare entrato nel microcefalismo di qualche stenterello ondeggiante) ? Eccola:
"I classici, come Adam Smith e Ricardo, rappresentano una borghesia che, lottando ancora contro i resti della società feudale, non opera che per epurare i rapporti economici dai residui feudali, per aumentare le forze produttive e dare un nuovo respiro all'industria e al commercio. Il proletariato che partecipa a questa lotta, assorbito in questo lavoro febbrile, non ha che sofferenze accidentali, passeggere, che esso stesso considera come tali".
Così la nuova originale ed integrale dottrina di classe possiede potentemente ed elabora il materiale di questi tre storici afflussi.
E a questo potente scorcio, che dunque non è stato inventato mesi addietro, si riporta Marx nel 1847, quando segue Proudhon nel suo incauto passaggio dal campo dell'economia "all'inglese" a quello della filosofia "alla tedesca". Don Carlo si è visto prima costretto a parlar molto della scuola di Ricardo per chiarire il gran pasticcio francioso.
Ora, egli dice, "ci si trasporta nella nostra cara patria e ci si costringe a riprendere la nostra qualità di tedeschi, nostro malgrado". "(...) L'inglese è Ricardo, ricco banchiere e grande economista; il tedesco è Hegel, semplice professore di filosofia all'Università di Berlino".
E il francese? Trattasi qui di dimostrare che le costruzioni ideologiche sono effetto della società contemporanea all'autore e non del fermentare spontaneo della "ragion pura" sotto il cappello del banchiere o nel cervello del filosofo.
Ecco il contributo di Francia al... pool della rivoluzione borghese. Attenti:
"Luigi XV, ultimo re assoluto [ultimo a morire assoluto e... nel suo letto], che rappresentava la decadenza della regalità francese, teneva addetto alla propria persona un medico che era contemporaneamente il primo economista di Francia. Questo medico, questo economista, rappresentava il trionfo imminente e sicuro della borghesia francese. Il dottor Quesnay [chissà mai come tre volte Tuesnay nell'edizione "Avanti!"] ha fatto della economia politica una scienza; e l'ha riassunta nel suo famoso Tableau économique. Oltre ai mille e uno commenti che sono apparsi su questo Quadro, ne possediamo uno del dottore medesimo. E' L'analyse du tableau économique, seguita da Sept observations importantes".
Del magistrale spunto, Marx si avvale per sciorinare sette osservazioni al metodo proudhoniano, di cui la prima è appunto quella cui abbiamo fatto cenno, sulle "categorie" economiche metafisicamente introdotte a scimmiottamento di Hegel. Questi aveva "una formula magica" e non seppe trovare i problemi a cui applicarla. Proudhon pose alcuni di quei problemi ma la formula gli si gelò tra le mani. Tentò un sistema socialista, ma fondò solo una teoria per piccoli borghesi, che maledettamente ne appesta tuttora.
Egualitarismo mercantile
Questa forma di sistema socialista, diffusa come la gramigna e che sta in fondo alla testa di almeno nove e mezzo su dieci di quelli che si dicono marxisti, figlia in modo ibrido da una economia borghese ricardiana e da una filosofia umanitaria enciclopedista.
Pochi brani del testo di Marx e della prefazione di Engels la metteranno in chiaro "nella sua magrezza". Ricardo e i suoi sono tra gli economisti "fatalisti", che non fanno programmi né per abbattere né per superare il capitalismo: lo pigliano come è senza nemmeno domandarsi dal lato buono e cattivo. In altro passo Marx dice Ricardo cinico. Egli mette Cappelli ed uomini allo stesso livello:
"Diminuite le spese di fabbricazione dei cappelli e il loro prezzo finirà per precipitare al loro nuovo prezzo naturale [ossia dato dalla quantità di lavoro occorrente per un cappello], per quanto la domanda possa aumentare del doppio, del triplo, o del quadruplo. Diminuite le spese per il sostentamento degli uomini, diminuendo il prezzo naturale dell'alimentazione e del vestiario necessari all'esistenza, e vedrete che i salari finiranno con l'abbassarsi per quanto sia potuta aumentare anche considerevolmente la richiesta di mano d'opera".
Ricardo dunque non aveva nemmeno un capello (sotto il copricapo) lontanamente laburista. Tuttavia esso ci interessa sommamente. Così, nella prefazione, è sintetizzato il suo contributo, fin dai Principles, che sono del 1817. Primo: Il valore di ogni merce è solo e unicamente determinato dalla quantità di lavoro richiesto per la sua produzione. Secondo: Il prodotto della totalità del lavoro sociale è diviso fra le tre classi dei proprietari (rendita), dei capitalisti (profitto) e dei lavoratori (salario).
Ora, una serie di scrittori che possiamo chiamare socialisti "premarxisti" fondarono sulle due proposizioni di Ricardo la teoria egualitaria. Come in Inghilterra, ad esempio, il Bray, in Germania Rodbertus (di cui qui Engels confuta la pretesa di essere stato plagiato da Marx, che seguì tanto diversa via), fondandosi sul sistema dei "buoni di lavoro", proposero che tutto il valore del prodotto sociale fosse espresso non più in denaro, ma in una moneta che indicasse il lavoro in ciascuna merce contenuto e tali buoni fossero assegnati solo a coloro che avevano erogato tempo di lavoro corrispondente. Essi pensavano che così fosse possibile restituire al lavoratore tutto il valore prodotto, o aggiunto ai prodotti, dal suo lavoro e in sostanza soppressi rendite e profitti di capitale.
Non solo questo, sebbene dettato dal proposito umanitario, filantropico di eliminare la miseria e la sofferenza sociale, non è realizzabile, ma non è nemmeno concludente al fine di sostituire alla società capitalista una società meno intessuta di miseria e crudeltà. All'inizio un simile proposito è addirittura reazionario in confronto del libero sviluppo ed accumulazione del capitale privato. In tutti gli scritti di Marx questo è martellato, ma vi sono svolgimenti particolarmente decisivi in questo "Antiproudhon".
Engels aggiunge, come in altra occasione citato:
"La precedente applicazione della teoria di Ricardo, la quale mostra ai lavoratori come la totalità della produzione sociale, cioè il loro prodotto, appartiene a loro in quanto sono essi i soli effettivi produttori, conduce direttamente al comunismo. Ma essa è - come Marx accenna nel passo sopracitato - fondamentalmente falsa dal punto di vista economico, poiché è una semplice applicazione della morale all'economia (...). Per questo Marx non ha mai fondato su questi fatti le sue rivendicazioni comuniste, bensì sul necessario crollo, che si verifica progressivamente sotto i nostri occhi, delle forme di produzione capitalistiche".
Engels quindi aggiunge che tale reazione "morale" nelle masse non è affatto priva di effetto storico e anche economico, malgrado la intrinseca falsità dottrinale: come tutte le altre è una ideologia "approssimata", segno precursore di altre ulteriori, soprastruttura di un contrasto di forze positive nel seno della società, e non va certo ignorata o sottovalutata.
Ma nello svolgere la critica della proudhoniana versione di questo limitato socialismo, Marx ha delle costruzioni del più alto interesse, su cui sarà bene ancora un poco sostare, al fine precipuo di rendere chiara la radicale distinzione tra quelle prime istanze e la nostra e di stabilire che la formulazione che supera e abbandona indietro ogni "economismo" di tal genere, non è certo nuova ma addirittura primordiale nella sua ortodossia irriducibile: scopo al quale non si sarà mai dedicato abbastanza tempo, tanto è facile perdere questa bussola per i difficili mari dell'attualità e dell'attività.
Recipe: alcune "pillole"
Proudhon chiamava "valore relativo" di una merce quello determinato secondo il tempo di lavoro necessario per riprodurla.
Riduceva la questione sociale alla richiesta di pagare l'operaio nella stessa esatta misura.
Invece Marx gli dimostra che storicamente proprio la misura del valore delle merci giusta il lavoro che Ricardo introduce, e, meglio, scopre, definisce l'economia capitalistica e comporta la formazione di un plusvalore. Vogliamo una ennesima volta ridirla con nostre parole? Se vige lo scambio libero, chi detiene buoni di lavoro-tempo potrà sempre trovare sul mercato della mano d'opera chi lavori poniamo dieci ore non per un buono di dieci ore ma per uno di sei, allorché il valore-tempo di sei ore basti ad acquistare la sussistenza giornaliera, in senso completo, di un lavoratore. Occorre comunque ben altro apparato costrittivo: ma qui non è che un aspetto della obiezione che Marx racchiude in questa salubre "pillola".
"Il valore relativo, misurato dal tempo del lavoro, è fatalmente la formula della moderna schiavitù dell'operaio, invece di essere, come vorrebbe il signor Proudhon, la "teoria rivoluzionaria" dell'emancipazione del proletariato".
Presa questa pillola dopo il pasto, si capisce in breve come la teoria del plusvalore ci è indispensabile per l'anatomia della società capitalistica, ma che la nostra rivendicazione programmatica non è: abolizione del plusvalore. Qual è? Marx lo dice! Se lo dice, e lo ridice; e di pillole ve ne abbiamo date!
La metafisica di Proudhon pretende che se in un qualunque tempo si fosse presa a rispettare la legge-miracolo del valore-lavoro, dato che le cose più necessarie si provvedono con meno tempo, automaticamente l'umanità come avverrà dal momento della emissione dei celebri buoni avrebbe avuto tutto il necessario ai bisogni primi di tutti, e progressivamente provveduto a soddisfare bisogni più alti. Pillola, per evitare una tale indigestione di retorica e di utopismo:
"Ma le cose vanno ben altrimenti di come pensa il signor Proudhon. Nello stesso momento in cui sorge la civiltà, la produzione comincia a fondarsi sull'antagonismo degli ordini, degli stati, delle classi, infine sull'antagonismo del lavoro accumulato col lavoro immediato. Senza antagonismo non vi è progresso. Questa è la legge che fino ai nostri giorni la civiltà ha seguito".
E' pillola da far danzare il valzer all'ippopotamo. Anzitutto racchiude la dimostrazione che, al suo tempo, ogni modo di produzione, compreso il capitalistico, appunto perché miglior produttore di sopralavoro, ha fatto girare avanti la ruota famosa della storia.
La formula visionaria di Proudhon vale dire che
"poiché al tempo degli imperatori romani nelle piscine artificiali venivano allevate le murene, c'era di che nutrire abbondantemente tutta la popolazione".
Ma vi è di più; ove si rifletta che in epoca borghese il lavoro accumulato è il capitale, il lavoro immediato è l'opera dei salariati, ne sorge la lapidaria formula della istanza comunista: abolire la dipendenza del lavoro immediato dal lavoro accumulato.
La formuletta 1847 basta a stabilire che nella Russia 1954 non v'è briciola di socialismo. Supponiamo provato che l'operaio russo abbia salario reale più alto di quello occidentale. Siccome è remunerato sul terreno dello scambio di equivalenti, ossia tanto denaro (magari anche tanta parte di oggetti di consumo) contro tante ore di lavoro, sussiste (anche a persone dei capitalisti e proprietari invisibili) la dominazione del lavoro accumulato sul lavoro immediato.
Giù un altro tabloide, in risposta all’ottimismo degli ugualitari. Non è vero che le cose più utili, necessarie, sono quelle a minor prezzo:
"Il prezzo dei viveri è aumentato quasi continuamente, mentre il prezzo degli oggetti manufatti e di lusso è quasi continuamente diminuito (...). Ai nostri tempi [del valore uguale lavoro] è più facile produrre il superfluo che il necessario".
Qui per Marx non sta poi male un po' di ideologia del Medioevo: i prodotti agricoli erano relativamente più a buon mercato dei prodotti manifatturati.
Qualche corollario 1954. L'industrializzazione della Russia si fa a ritmo prettamente capitalista dato che vi salgono i prezzi dei prodotti alimentari e vi scendono quelli degli oggetti manifatturati, non escluso il rossetto per le labbra: cannoni e fucili si danno gratis al lavoratore soldato.
Donde la miseria
Se l'utilità è in ragione del basso prezzo, l'acquavite e il tabacco (eh, questo secondo, don Carlo non lo cita: se fosse stato a prezzi proibitivi, il Capitale sarebbe stato trovato tutto scritto) di infima qualità, giovano dunque alle masse? E' per la utilità che il minimo del prezzo (anche se espresso in tempo di lavoro) decide del massimo di consumo? In guardia!
"No. Il fatto è che in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all'uso della maggioranza".
Marx non si occupa mai dei caratteri della società comunista Fuori un corno acustico del calibro di quello di Roncisvalle:
"In una società futura, ove fosse cessato l'antagonismo delle classi, ove non esistessero più classi, l'uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale".
Occorre spiegare?!
Forse la cura eroica per assimilare un poco di dialettica non è finita, nemmeno per questa "seduta". Ci siamo serviti di Ricardo, come ci siamo serviti anche di Hegel e anche di Voltaire (e siamo dolenti, ma un festival dei teorici per aumentare la lista dei fornitori di dottrina non lo indiciamo, per quanto possano pullulare i genii incompresi, gli uteri-cervelli in stato di falsa gravidanza), ma se incontriamo ricardiani, hegeliani e volteriani, giù a pestare botte da orbi:
"Servendo di misura al valore di scambio, il tempo di lavoro diviene in tal modo la legge di un deprezzamento continuo del lavoro".
Ora, non solo non neghiamo che l'economia, retta da tal legge, sia sorta, ma nemmeno che abbia fatto bene a sorgere, o faccia bene dove non era sorta finora (Russia, Cina). Neghiamo - come dialogando con Stalin - che una economia con quella stessa legge chiave sia economia proletaria. Ha davvero tale formula destato magicamente la gamma di gran varietà dei prodotti, vantata dal Proudhon? Nemmeno questo:
"Al contrario, il monopolio, in tutta la sua monotonia, viene al suo seguito ad invadere il mondo dei prodotti, allo stesso modo che invade il mondo degli strumenti di produzione".
Il monopolio, la dittatura sul consumo delle più stupide merci e servizi, che ad esempio denunziammo nella modernissima prospera America, sono scolpiti da un secolo nella predizione marxista.
La polemica prende un passo infernale e ribadisce la inseparabilità delle due battaglie: destino di catastrofe del capitalismo, programma sociale rivoluzionario del comunismo.
Non vi è nella produzione attuale e non vi sarà mai - non vi sarà più dopo il medievale equilibrio in cui "la produzione seguiva passo passo il consumo" - la proporzionalità tra i diversi settori di consumo che Sismondi, Proudhon ed altri invocano, senza capire che è incompatibile con la distribuzione di mercato, con il dominio della legge di scambio tra valori equivalenti (confessato in Russia, se pure chi lo fa, fa la fine di Beria).
"La grande industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può più attendere la domanda. La produzione precede il consumo, l'offerta fa violenza alla domanda".
Quale spasso: si scrivono periodici per spiegare questo a Marx: poverino, ai suoi tempi non lo poteva sapere! Non aveva sentito odore di monopolio, di imperialismo. Scrivete pure, scarafaggi dalle zampe tuffate nel calamaio, su queste "pagine bianche":
"Nella società attuale, con l'industria basata sugli scambi individuali, l'anarchia della produzione, che è fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso.
Quindi delle due l'una:
O volete le giuste proporzioni dei secoli passati con i mezzi di produzione della nostra epoca, e allora siete al contempo reazionari e utopisti [e scarrafone disoccupato, aggiungeremo].
O volete il progresso senza l'anarchia; e allora, per conservare le forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali.
Gli scambi individuali infatti non sono conciliabili se non con la piccola industria dei secoli passati e con il suo corollario di "giusta proporzione", ovvero anche con la grande industria, ma in questo caso con tutto il suo seguito di miseria e di anarchia".
Vogliamo dunque stupire che dopo così decise formidabili impostazioni, gli aggiornatori di questo mezzo secolo dicano le stesse scarrafonate di quelli del mezzo secolo precedente?
Anche questo lo sapevamo già. Dopo aver provato che il preteso "socialismo" mercantil-laburista non è che una apologia della società borghese, Marx così chiude il paragrafo:
"Si vede così che le prime illusioni della borghesia sono anche le sue ultime".
Proudhon sulla rendita
Raccogliamo le vele.
Su tali premesse è chiaro che il Nostro sgarrò anche circa la rendita. Come, non importa poi tanto; premeva solo al fine di mostrare che ancora giovanissimo Marx definiva il problema nei termini stessi delle opere più mature.
Dichiarata impossibile una analisi economica della proprietà rurale senza mozioni di sentimento, l'autore, che veniva dall'aver trattato del credito e dei suoi nefasti effetti (in tal campo chi sa perché prevalse lo spirito del Male) si sbraccia per il "riallacciarsi più fortemente alla natura". Non vi pare un discorso parlamentare sulla riforma fondiaria?
Poi con gran rimbombo di parole vuol presentare la teoria di Ricardo sulla rendita differenziale, faccenda che tratteremo (in ora mattutina) tra breve.
Con la sua brevità Marx spiega che disse Ricardo:
"L'eccedenza del prezzo dei prodotti agricoli sulle loro spese di produzione, ivi compresi il profitto e l'interesse ordinari del capitale, dà la misura della rendita".
Un tale margine, non solo in certi casi non si verifica, ma evidentemente varia di grandezza tra terra e terra; secondo la fertilità. Ma il sottoporre questi diversi gradi ad analisi quantitativa, è ben altra cosa che ricadere nel concetto della terra, naturale ricchezza, che regala una quota-ricchezza come rendita, non derivata da lavoro umano.
Il problema chiaramente messo da Ricardo è innanzitutto storico:
"La rendita, nel senso datole da Ricardo, è la proprietà fondiaria allo stadio borghese: cioè la proprietà feudale che ha subìto le condizioni della produzione borghese".
"E' l'agricoltura patriarcale trasformata in industria commerciale, il capitale industriale applicato alla terra, la borghesia delle città trapiantata nelle campagne".
Il più grave errore di Proudhon in questo campo sta nel sostenere che la rendita è l'interesse pagato per un capitale che non perisce giammai: la terra. E che mentre il saggio di interesse commerciale decresce, il saggio della rendita fondiaria storicamente aumenta.
Marx ci prova che gli stessi miglioramenti ed investimenti di capitale tecnico sulla terra conducono a un ribasso e non a un rialzo della rendita, pur trovando nell'investimento il loro margine adeguato di profitto, che tende a scendere storicamente come quello di ogni altro investimento industriale.
E poi si chiede: fino a qual punto è giusto chiamare capitale la terra?
"La terra, finché non è sfruttata come mezzo di produzione, non è capitale".
Ciò vuol dire che sono capitale solo gli impianti eseguiti con lavoro umano sulla terra o le macchine, attrezzi, scorte in sussidio alla sua coltivazione. Ma il reddito di tutto questo è profitto del fittavolo, non rendita del proprietario, sul che Proudhon fa gran confusione.
Quanto alla eternità, anche per la parte in cui la terra diviene un capitale fisso, questo si consuma quanto ogni altro capitale fisso o circolante e va rinnovato ogni anno in una certa quota, non meno che nell'industria non rurale.
Se può parlarsi di un capitale terra, non è in relazione alla rendita dominicale, ma al profitto del fittavolo imprenditore.
La rendita non risulta dall'interesse di un capitale, né come capitale terra né come capitale investito sulla terra. La rendita risulta dai rapporti sociali in cui si fa la coltivazione. La rendita proviene dalla società, non dal suolo.
E quindi, ancora una volta, proprietà e rendita fondiaria possono essere soppresse restando in regime borghese:
"Comprendiamo bene che economisti come Mill, Cherbuliez, Hilditch ed altri abbiano domandato che la rendita sia attribuita allo Stato per servire al pagamento delle imposte".
Non è socialismo la formula russa: la terra alla Nazione.
Il progamma comunista nº3 dell 5/2/1954
Sul filo del tempo
Amadeo bordiga
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