GUERRA E RIVOLUZIONE
Amadeo bordiga
Sul filo del tempo
Ieri
Tutti i rinnegati che dal piano della classe e della guerra sociale si sono portati su quello della guerra degli eserciti degli stati e delle nazioni, partono come orientamento storico dalle tradizioni francesi del 1792-93, contro cui Marx ammoniva il proletariato parigino, in un passo tanto importante che Lenin nel 1915 lo ripete.
«La simpatia dei lavoratori parigini per le ideologie nazionali (tradizione del 1792) era una loro debolezza piccolo-borghese, rilevata a suo tempo da Marx; fu questa una delle ragioni della sconfitta della Comune».
E, con lui, noi ripetiamo. Repetita iuvant.
Quando Mussolini evase definitivamente dal partito di classe e dal marxismo, mise sulla testata del «Popolo d'Italia» due manchettes:
«La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette - Napoleone». - «Chi ha del ferro ha del pane - Blanqui».
E giù! sulla letteratura della guerra democratica, liberatrice, nazionale, socialista e rivoluzionaria insieme; al suono della quale paccottiglia finalmente i suoi degni scolari lo appesero a testa sotto.
Lo schema del borghese è questo: idea - forza armata - interesse di classe. Lo schema del rivoluzionario proletario ingenuo è: idea proletaria - forza armata proletaria - interesse di classe proletario.
Lo schema dialettico marxista è invece: reale interesse di classe proletario - lotta di classe proletaria - e due derivazioni parallele: organizzazione in partito di classe e teoria rivoluzionaria; conquista ed esercizio armato del potere proletario.
Nel bagolamento letterario i processi tradizionali della rivoluzione borghese restano come modelli alla rivoluzione operaia. Nella posizione scientifica del marxismo la dipendenza si esprime diversamente: la vittoria della borghesia nelle sue rivoluzioni era necessaria per liberare le forze produttive e dare pieno avvio al capitalismo, condizione per il generalizzarsi della lotta di classe tra borghesia e proletariato, e per la rivoluzione socialista. Di questa la rivoluzione borghese fu la premessa, non la maestra.
Lo sviluppo delle situazioni storiche prende il posto dei poetici richiami e delle confusioni pagliaccesche tra ardore patriottico e forza rivoluzionaria, di cui abbiamo visto i saturnali durante la Seconda Guerra Mondiale nelle resistenze partigiane, e potremmo vederne di peggio in una terza guerra, da parte di sempre nuove schiere di seguaci del «mussolinismo», come a buon diritto lo chiamiamo.
Le guerre tra la Francia e le successive coalizioni europee, che alla fine sboccarono nella restaurazione della monarchia assoluta, furono uno stadio fondamentale per la diffusione in Europa del capitalismo, non impedita affatto dalla vittoria degli eserciti feudali, alleati con l'ultracapitalistica Inghilterra. In tutto questo periodo storico non solo i rivoluzionari borghesi fanno una politica di patriottismo e di nazionalismo spinto, ma vi trascinano con sé il nascente proletariato, determinati entrambi a tale politica e alle derivanti ideologie dalla sociale necessità di disperdere gli ultimi vincoli feudali. Questo non vuole però dire che alla guerra civile tra le classi che si contendono il potere si surroghi l'urto militare degli Stati e degli eserciti. Il fatto determinante dello sviluppo sociale resta la lotta tra le classi, accesa ovunque in tempi successivi, e senza di questo non potremo spiegarci lo svolgersi stesso delle guerre, col nuovo carattere generale e di massa del militarismo moderno.
Gli stessi giacobini non tolsero mai il centro della loro attenzione dalla lotta interna, per portarlo sulle «novelle Termopili di Francia» il cui Leonida, Dumouriez, non tardò a tradire e a finire da traditore.
Le coalizioni cominciarono quando la monarchia, in forma costituzionale, aveva ancora il potere, e i rivoluzionari estremisti accusarono di aver provocato le guerre i monarchici e poi i repubblicani moderati:
«prima di dichiarare la guerra agli stranieri distruggiamo i nemici all'interno... facciamo trionfare la libertà all'interno e nessun nemico oserà di attaccarci: è col progresso filosofico e con lo spettacolo del benessere della Francia che estenderemo l'impero della nostra rivoluzione, non con la forza delle armi e la calamità della guerra».
La dialettica realtà è ben altra cosa dai romantici clichés e dal dilagante romanzamento della storia. Al 10 agosto del 1792 i moderati dominano nell'Assemblea legislativa nazionale, mentre i giacobini hanno in mano il Consiglio Generale della Comune. La guerra sembra terminata, ma il tradimento del monarchico generale Lafayette produce la caduta di Longwy, quella di Verdun (la «vile città di confettieri» carducciana), e arriva a Parigi la notizia che i prussiani di Brunswick muovono sulla capitale. La Comune fa suonare le campane a stormo, il popolo si raduna e chiede armi, Danton entra nell'assemblea e le impone le misure di difesa militare. Ma i sanculotti hanno qualcosa da fare di più urgente che raggiungere il fronte: prima di marciare con le «epiche colonne» verso Chalons, corrono alle prigioni e fanno giustizia degli imputati controrivoluzionari che il governo indugia a processare.
Non era la «nostra» rivoluzione, e non le chiediamo modelli, ma possiamo averne un insegnamento. Essa venne dalla macchina prima che dalla ghigliottina, e il marxismo lo ha scoperto, ma per i suoi stessi protagonisti ed ideologi più risoluti venne prima dalla ghigliottina che dal cannone; vinse al Tempio, non a Valmy o a Jemappes, la decisiva battaglia.
Sappiamo che il marxismo ha considerato come guerre di sviluppo quelle del periodo 1792-1871, che si possono chiamare con termine semplificativo guerre di progresso, ma senza cadere nella trappola della «guerra di difesa». Lenin infatti avverte bene che possono essere anche di «offesa», e che guerre ipotetiche tra stati feudali e stati borghesi potrebbero vedere «giustificata» dai marxisti l'azione dello Stato più avanzato «indipendentemente da chi abbia iniziata la guerra». L'argomento era strettamente polemico, era in rapporto all'assurdo che i socialisti francesi e tedeschi fossero entrambi per la guerra col pretesto vile della «difesa»: esso vuol dire: se in dato momento storico una data guerra risultasse «rivoluzionaria», essa sarebbe da sostenersi anche se non difensiva. In fondo, se esiste, la guerra rivoluzionaria è squisitamente d'attacco, di aggressione. L'argomento dialettico batteva in breccia la bassa ipocrisia di tutte le campagne che mobilitano le masse alla infatuazione guerresca, colla simulazione di non preparare e volere la guerra, ma di essere costretti a respingerla in quanto preparata e voluta dal nemico.
Non quindi con il criterio moralistico della difesa, antitetico al proprio, il marxismo ha valutate le guerre che si pongono tra il classico 1792 e il 1871, ma con quello degli effetti sullo sviluppo generale, e molte volte nella sua critica ha considerato utili e acceleratrici iniziative di offesa militare, come ad esempio quella bonapartista del 1859 e prussiana del 1866. Non si tratta dunque di dire che fino al 1871 il partito marxista era per la «difesa della patria» o per la «difesa della libertà», ma di ben altro.
Dopo la vittoria controrivoluzionaria del 1848 Marx ed Engels non solo rimpiangono, abbiamo tante volte detto, che il proletariato non abbia vinto, ma anche che si presenti una remora storica al pieno affermarsi del potere borghese in tutta Europa. Purtroppo era chiaro che gli operai e i socialisti avrebbero dovuto ancora dare una mano e versare del sangue per tali fini indiretti. Ma da questo ad accettare, sia pure nella propaganda, i principi e i concetti di nazione, di patria e di democrazia propri dei borghesi (come senza pudore fanno gli ex marxisti odierni) corrono mille miglia. Se da quella constatazione storica fosse derivata una simile conclusione, ogni politica della lotta di classe e della funzione propria del proletariato sarebbe crollata. Altro è dire: per il completo porsi del sistema produttivo capitalistico vi saranno ancora lotte condotte con le bandiere delle ideologie patriottiche e nazionali, e per il proletariato interessa che queste lotte siano vinte; altro è il fare propria la rivendicazione patriottica e nazionale in sé stessa. Nel periodo dal '48 al '71 Marx ed Engels tennero la giusta via senza il menomo dubbio; oggi che quella posizione storica non si ripete e appartiene a un lontano passato, vediamo un duplice tradimento: la menzogna che falsifica la situazione sostenendo che mancano le condizioni base della lotta di classe e occorre tuttora risolvere pregiudiziali esigenze di liberazione nazionale; e l'infamia di condurre queste campagne non come rivendicazioni storiche di passaggio, ma con l'aperta adesione ai concetti generali e anticlassisti di interesse nazionale, di dovere patriottico in qualunque tempo e fase storica.
Dal 1848 in poi Engels è seccatissimo, ad esempio, che la borghesia tedesca sia tanto vile e tarda da non sapere liquidare gli avanzi feudali, e seguirà con un'analisi paziente e diffusa le sferzate che la storia le darà negli episodi del '59, del '66, del '70... Ma già nel 1850 è spietato quando critica la ideologia e la politica dei profughi democratici Mazzini, Ledru Rollin e simili, e scarnifica un testo del «Comitato Centrale Democratico Europeo». Erano movimenti che facevano il paio coi blocchi recenti di emigrati antifranchisti o antifascisti e colla propaganda di tutta la guerra 1939-1945, che ci ha ammorbato. Udiamo:
«Dunque: progresso - associazione - legge morale - libertà, uguaglianza, fratellanza - famiglia, comune, stato - santità della proprietà, credito, educazione - Dio e popolo... Il riepilogo di un tale evangelo è uno stato sociale in cui Dio costituisce il vertice, e il popolo, o, come poi si dice, l'umanità, la base. Cioè questi signori credono alla società attuale, in cui notoriamente Dio è il vertice e la plebaglia la base...».
L'ironia è feroce e la citazione non ha bisogno di continuare. Un secolo esattamente è passato. Ma di quale altro pastone mai vedete nutrita la propaganda cominformista?
Nella prefazione del 1874 alla sua «Guerra dei contadini», Engels rivendica tutte le sue rampogne ed apostrofi al sordo borghese tedesco, e le sue dialettiche compiacenze per Solferino, Sadowa, Sedan. Un incauto lo prenderebbe per un precursore dell'Anschluss.
«Quel che è notevole, per la classe operaia tedesca... è che gli austro-tedeschi ora si debbano domandare, una buona volta, che cosa vogliono essere: tedeschi o austriaci? Da che parte vogliono stare? Dalla parte della Germania o dalla parte delle sue appendici transleitane, specificamente non-tedesche?».
Che razzista quell'Engels! Che materiale per la leggenda della coppia pangermanista Marx-Engels, simile alla panslavista Lenin-Trotsky!
La semiborghese e spuria forma del regime di stato di Berlino dopo la fondazione dell'Impero non svia per nulla l'analisi critica marxista. Per il fatto stesso che non tutte le istituzioni feudali sono scomparse, questo tipo di Stato può sembrare una non perfetta dittatura di classe, quale lo sono le stesse repubbliche parlamentari borghesi. Su ciò la speculazione reazionaria di avvicinare a questi governi bastardi, sotto pretesto che non siano diretti comitati di affari del ceto industriale, movimenti equivoci di corporativismo operaio. Con la sua mirabile storica antiveggenza Engels definisce bonapartista il regime dell'impero Hohenzollern dopo la vittoria del 1870. Nella detta prefazione del 1874 rivendica di aver già data questa definizione nella «Questione delle abitazioni» del 1872. Un tale regime sembra, come la prima e la seconda dinastia napoleonica, avere una rete burocratica e militare più potente delle classi. Ma esso, Engels spiega, ha per fondamento il divenire imponente del capitalismo: nella Germania del 1874 egli pone in evidenza la struttura sociale: sviluppo industriale deciso, sorgere di un proletariato numeroso e cosciente, trapianto dalla Francia del Secondo Impero, insieme ai miliardi delle indennità di guerra,
«del sintomo più sicuro del fiorire dell'industria, la truffa,incatenando al suo carro di trionfo conti e duchi».
Il corsivo della parola truffa indica... che è usata in italiano. Questa analisi potrebbe molto insegnare ai tanti che cercano la chiave di attualissime forme borghesi. Ma attenti, Engels non propone una campagna per la piena forma democratica contro il bonapartismo tedesco, col motivo che questa sia forma borghese di ritorno all'indietro! Essa è stata la via per trarre la Prussia dal tempo feudale, dall'essere ancora uno Stato «mezzo feudale». Le formule di Engels sono sempre cristalline:
«Il bonapartismo è in ogni caso una forma moderna di Stato che ha come suo presupposto la soppressione del feudalesimo».
Scherzando, Engels mette al 1900 la fine di questa stentata borghesizzazione del potere tedesco, ma ad ogni passo augura che la forza proletaria possa presto abbattere, in fascio, nobili, junkers, proprietari fondiari e industriali borghesi.
Arrivati al 1914, lo sviluppo economico tedesco è divenuto uno dei fatti preminenti sulla scena mondiale: i suoi dati conducono Lenin ad indicarlo come uno degli imperialismi-tipo.
Viene il buffonesco «mussolinismo» internazionale e, se non in Italia, in tutti i grandi paesi riesce a convincere la gente che la guerra contro il Kaiser è la guerra rivoluzionaria per eccellenza, perché l'impero tedesco vuole, non contendere mercati imperiali per un modernissimo apparato industriale, ma per restaurare il tempo feudale!
Guerra dunque per la rivoluzione democratica e borghese, sempre minacciata, sempre da rifare!
Oggi
La poderosa demolizione dell'opportunismo dovuta a Lenin e alla Terza Internazionale si basa, dunque, su posizioni politiche e su direttive marxiste che dichiarano chiusa la fase di lotte per la antitesi feudalesimo-capitalismo. Essa si applica integralmente alla valutazione della seconda guerra imperialistica scoppiata nel 1939.
Come si può dedurre dal testo di Engels che la guerra successiva alla situazione della fine del secolo scorso non avrebbe potuto essere più una guerra di liquidazione del feudalesimo, cosí si desume dal testo di Lenin del 1915 che la seconda guerra imperialistica, o tutte le altre, non meno di quella scoppiata nel 1914, non avrebbero potuto essere definite guerre di difesa e di liberazione nazionale da nessuna parte.
Lenin lo dice esplicitamente: il nostro compito verrà giustamente espletato solo mediante:
«la trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile. È impossibile sapere se un forte movimento rivoluzionario scoppierà in seguito alla prima o alla seconda guerra imperialistica fra le grandi potenze, durante o dopo di essa, ma in ogni caso è nostro preciso dovere lavorare sistematicamente e con perseveranza proprio in questa direzione» (della guerra civile, della vittoriosa lotta di classe).
Come dunque tutti quelli che, da qualunque parte del fronte, hanno sostenuto per la guerra 1914 la politica della guerra di difesa, della guerra nazionale, della guerra democratica, facendo per questi scopi borghesi tacere la lotta di classe, hanno tradito la linea di Marx e di Engels, cosí tutti quelli che nella guerra 1939 in tutti i paesi borghesi, Germania, Francia, Inghilterra, America, Italia, hanno appoggiato la guerra dei governi, collaborando con essi militarmente e politicamente, hanno allo stessissimo titolo tradito la linea di Lenin, ossia, come quegli altri, la sola linea rivoluzionaria proletaria.
Ed infatti come allora si volle veder rinascere il feudalesimo del kaiserismo della Germania divenuta uno dei primi Stati industriali, lo stesso si disse nel 1939 della Germania di Hitler e dell'Italia di Mussolini. Egualmente si sostenne che uno scioglimento della guerra favorevole ai tedeschi, e una sconfitta delle democratiche Francia, Inghilterra ed America, avrebbe ricacciato la storia indietro di un secolo e resa di nuovo necessaria la rivoluzione liberale, ossia la rivoluzione borghese. Egualmente come allora si invocò e praticò il blocco e la sacra unione coi governi capitalistici occidentali, e coi partiti borghesi di opposizione ai governi di Berlino e di Roma; dando anzi ossigeno a queste opposizioni praticamente morte e non meritevoli che di sepoltura, si rinunciò alla lotta di classe e alla guerra civile.
La guerra fu interpretata dai nuovi socialtraditori come guerra «rivoluzionaria» nel senso della rivoluzione borghese. La questione ha un altro aspetto, che per ora questo Filo non tratta: quello della «guerra rivoluzionaria proletaria» o della cosiddetta «difesa nazionale rivoluzionaria» che si porrebbe dopo la conquista del potere da parte degli operai. Anche contro gli inganni e le false posizioni di questa tesi lavorò duramente Lenin, e dovette strigliare e i Kamenev e gli Zinoviev, e dopo i Bucharin e gli Stalin soprattutto. Ma qui noi facciamo stato dei motivi di pretesa «rivoluzione» antifeudale e borghese. Non si potrà negare di averne fatta una vera orgia nella propaganda contro l'Asse, sui dettami delle radio inglesi e americane. Se si fosse basata la propaganda anti-Asse sui motivi classisti, anzitutto non si sarebbe dovuto traversare la fase di alleanza Berlino-Mosca per la spartizione polacca, ma non si sarebbe avuta la supina acquiescenza, che dura tuttora, alla apologia della «liberazione nazionale» e, in Italia ad esempio, del «secondo risorgimento» e della «rivoluzione liberale», in cui si sono identificati i ritorni al potere di pochi fessi, imbelli oppositori del fascismo, antichi arnesi antiproletari, vecchi, tipici, disgustosi mussolinisti del tempo della prima orgia di apologia guerresca con motivi di democrazia borghese, nostalgici della lontana vittoria veneta, che al solito dovettero alle armi straniere, poiché la loro più alta impresa nazionale si chiamò Caporetto.
La rivoluzione borghese fu nella storia una cosa seria, e dette la sua impronta a guerre grandiose. Le ultime due guerre in Europa e in Italia non furono guerre rivoluzionarie, ma macelli di schiavi del capitale.
SOURCE: «BATTAGLIA COMUNISTA», N. 10 DEL 5 DE MAYO DE 1950
No hay comentarios:
Publicar un comentario